Recensione / Jack White - No name


Di Jack White molte cose si possono scrivere - che è altalenante ed a volte incomprensibile nel percorso discografico sono le due che oggettivamente rasentano maggiormente la verità - ma di certo al ragazzo di Detroit non manca il talento. Purtroppo però il talento non basta a garantire un livello compositivo alto ed una certa coerenza artistica, ammesso che quest'ultima rappresenti poi un punto di forza nell'industria musicale.

Fatto sta che Jack White nella sua ampia discografia è stato molte cose: il motore dietro al successo dei White Stripes, il co-autore in quel quartetto geniale che rispondeva al nome di The Racounteurs, il deus ex machina dietro il suo ennesimo supergruppo, i Dead Weather. In tutte queste versioni si celano bei dischi, opere mediocri e passaggi incomprensibili, spesso figli di un ego debordante. Esistono tanti Jack White e tendenzialmente almeno due versioni discografiche: i dischi di Nashville, in cui il nostro si propone in una veste più cantautorale e se vogliamo più mainstream, e poi i dischi di Detroit - sua città Natale -  che ricalcano il mood della città in cui il rock è per antonomasia più grezzo e diretto. Ecco, il qui presente No Name è in tutto e per tutto un disco figlio di Detroit. Ed è un gran bel disco.  

Della sua genesi si è già scritto molto: il disco infatti, privo di qualsiasi titolo o altro riferimento all'autore, ed avvolto in un anonimo packaging bianco, è stato regalato ai clienti dei negozi di dischi della Third Man Record, la catena nonché etichetta di proprietà di Jack White. Chissà lo stupore nello scoprire che si trattava del nuovo disco di White, e che disco!

No Name infatti è un album diretto e senza fronzoli, un esempio riuscito di cos'è il garage rock con tutte le sue derivazioni ed ispirazioni, in primis il blues. Le canzoni non danno respiro, spesso sono corte ed essenziali: ben 4 brani sui 13 in scaletta non arrivano ai tre minuti di durata. Dentro c'è il Jack White più ispirato degli ultimi anni, che apre il set con la deliziosa "Old scratch blues", un blues rock da manuale, diretto come un pugno in faccia e suonato a volumi altissimi, proprio come tutto il disco, che tra l'altro gode di un suono meraviglioso, quasi a portare l'ascoltatore in sala di registrazione con la band. 

Detroit dicevamo, e la Motor City sembra il faro che ispira il garage rock alla MC5 di brani come "Bless Yourself", che potrebbe uscire da una session live dei Rage Against the Machine, cosi come "Archbishop Harold Holmes" e "Bombing Out", un punk rock ruvido ed essenziale che colpisce come un pugno allo stomaco.

Non mancano momenti più melodici, come "What's the Rumpus", il cui chorus scandisce a chiare lettere la sentenziosa "Ho la sensazione che la verità in questi tempi sia diventata un'opinione", che non ammette repliche. E poi "That's how I'm feeling", molto vicina ad alcuni episodi dei The Racounteurs. 

Certamente il riferimento più grande è il rock degli anni 70, in primis Led Zeppelin e Black Sabbath, tanto che in alcuni brani il riferimento alla band di Page e Plant è evidente, come in "Underground", che richiama ad una certa "Ramble on". Va detto che la tecnica di registrazione diretta ed i suoni utilizzati concorrono a far sembrare questo No Name un disco di altri tempi.

Probabilmente questo è il più bel disco che ho ascoltato quest'anno, al netto di Dark Matter dei Pearl Jam, ma siamo su due orizzonti diversi e questo è, oggettivamente, inatteso perchè White sembrava disperso nelle sue troppe derivazioni. Per questo Natale fatevi un regale, ascoltate No Name: se vi piace il rock vero. sporco e senza fronzoli questo è un toccasana.

Highlights: tutte. 


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