Recensione / Slash - Orgy of the damned

Dal punto di vista chitarristico, la notizia che Slash abbia licenziato il suo primo disco blues (scusate la semplificazione, più avanti i termini saranno maggiormente chiari) fa di
Orgy of the damned uno degli album più attesi dell'intera carriera di Saul Hudson. Diciamocelo senza troppi giri di parole: attendevamo da anni Slash a questa prova ed il perchè è facilmente intuibile. Parliamo infatti di uno dei chitarristi più amati degli ultimi trent'anni, il guitar hero che ha scosso l'hard rock alla fine degli anni Ottanta e che ha marchiato a fuoco gli anni Novanta. In tanti anni di musica ho incontrato tantissimi amici chitarristi che hanno iniziato ad imbracciare la chitarra dopo aver ascoltato questo ragazzone alto 2 metri ed io stesso, nel mio immaginario, quando avevo vent'anni avrei voluto con tutto me stesso uscire dalla chiesa spersa nel nulla del video di "November Rain" e suonare contro il vento del deserto la mia Les Paul. 

Nonostante dunque il buon Slash abbia rappresentato gli anni Novanta come nessun altro, per il modo di suonare senza troppi fronzoli e per un evidente discendenza dal rock blues, Slash è da sempre inserito nella categoria di quelli che sono parte della storia di questo strumento, insieme a gente come Clapton, Beck e tanti altri. E quindi Orgy of the damned non può non essere un'opera da ascoltare con attenzione. 

L'approccio in se per se ha tutte le più buone intenzioni: una registrazione live in studio di registrazione, un mucchio di canzoni iconiche (ci vuole coraggio a scegliere questi brani immortali) e una serie di ospiti altrettanto blasonati. Partiamo dalla band che ha scelto per accompagnarlo, amici di vecchia data come Michael Jerome alla batteria, Johnny Griparic al basso, Teddy Andreadis alle tastiere nonchè Tash Neal alla ritmica: Jerome e Andreadis sono due turnisti apprezzati (di cui il secondo ben introdotto nel mondo del blues), gli altri sono semi sconosciuti. 

Ben più illustri sono i cantanti che Slash fa accomodare dietro al microfono, che non hanno bisogno di presentazioni: Billy Gibbons, Iggy Pop, Paul Rodgers, Chris Robinson (The Black Crowes), Chris Stapleton, Beth Hart, Gary Clark Jr., Brian Johnson...roba da far impallidire un Live Aid qualsiasi. 

Si parte con l'elegante "The pusher" degli Steppenwolf, qui riprodotta in maniera sicuramente godibile e con un suono di Hammond avvolgente. L'ugola seventies di Chris Robinson è in realtà il vero plus della canzone, ma va detto che il tutto suona convincente e "catchy". La musica cambia (è proprio il caso di dirlo) con "Crossroads", brano pericolosissimo perchè super conosciuto ed ultra coverizzato, qui reso in maniera muscolosa da tutta la band. L'assolo di Slash è distorto ed emerge il chitarrista che tutti conosciamo, un po' funambolico ed un po' tamarro. Non va.

"Hoochie Coochie Man" è torrida, grazie ad una interpretazione mefistofelica di Billy Gibbons, sia con la voce che con la slide, ed è molto più a fuoco della parte di Slash, anche qui un po' troppo hard rock nell'interpretazione. Il confronto con la "Hoochie Coochie Man" di Clapton in From the cradle è purtroppo impietoso. E poi la tirano troppo per le lunghe. Per fortuna in "Oh well" arriva in soccorso quel talento di Chris Stapleton che rimette il tutto nella giusta carreggiata con una interpretazione magistrale ed un suono più "posato", anche se qui di blues non c'è niente, siamo pienamente nel rock. Niente di male ovviamente, ma...

Interessante la rilettura in stile southern rock di "Key to the highway", condotta dalla voce della rocker Dorothy, che si trasforma in una cavalcata rock a suon di sfida tra le chitarre, in un'orgia di distorsioni che rende bene il furore della jam. Incredibile a dirsi, ma quando entra in scena Iggy Pop i giri rallentano, per una versione godibilissima di "Awful dream", classicone blues qui reso veramente bluesy. Tutti perfetti, giù il cappello. 

Un po' meno a fuoco è invece "Born under a bad sign", anche in questo caso troppo pompata ed hard...anche qui, se confrontata con la versione di Robben Ford nel disco Talk to your daughter, questa ne esce troppo didascalica e soprattutto esageratamente chiassosa. Per fortuna la seconda parte del disco si dimostrerà ad un altro livello. Innanzitutto, la meravigliosa "Papa was a rolling stone" con una interpretazione da urlo di Demi Lovato (che voce!!) ed uno Slash altrettanto sugli scudi, che invece di proporre la solita interpretazione muscolosa gioca con effetti di wah e talk box, in una versione a metà tra soul e prog: trascinante ed imperdibile!

Altrettanto goduriosa è "Killing Floor", quasi scherzosa nel suo incedere altalenante, con un arrangiamento finalmente "scarico" per lasciare spazio all'ugola di Brian Johnson ed all'armonica di Steven Tyler (!). Piccola riflessione: la prova di Johnson alla voce è veramente una chicca, lontana anni luce dalle forzature con gli AC/DC. L'assolo di Slash è un numero di alta scuola...Gibson 335 e via che si fa blues! Per la track n° 10 Saul Hudson pesca addirittura nel repertorio di Stevie Wonder con la bellissima "Living in the city" ed è una bel tributo all'immenso Stevie. 

Ed arriva poi il momento di Beth Hart che interpreta magistralmente il lentone "Stormy Monday", sorretta da un ispirato Slash che - ormai è chiaro - quando abbassa il gain della distorsione da il meglio di sè. Andiamo Saul, il blues sarà per sempre una batteria, un basso, una chitarra ed un piano Fender che tengono botta per vomitare le iniquità di questo mondo...

Si chiude con "Metal Chestnut", unico brano originale e scritto per l'occasione da Slash, un po' ampolloso e che non aggiunge granchè (per la serie, concludere con "Stormy Monday" sarebbe stato perfetto).

Riflessioni. Con Orgy of the damned Slash ha rischiato grosso e, alla fine, ne esce vincitore, seppur con qualche passo falso. E' chiaro che, in questa festa chiassosa, i momenti migliori sono quelli in cui lo stile prevale su certe interpretazioni "di pancia" che restituiscono il solito guitar heroes che però appiattisce tutto trasformandolo in hard rock. In certi tratti sembra di ascoltare certi dischi rock blues del compianto Gary Moore, anche lui sempre al limite del tamarro ma che masticava il genere così tanto da uscirne sempre trionfatore. Qui non è sempre così e soprattutto in qualche brano la si tira troppo per le lunghe. Va detto però che il livello di onestà è tanto ed è chiaro che questo è un disco "suonato" live in studio, il che fa sempre piacere in tempi magri come questi.

Ma soprattutto, laddove si decide di lavorare più di fino, il risultato è francamente sublime e ci lascia uno Slash veramente eccelso. Alla prossima, caro Saul, un po' di testosterone in meno e ci avviciniamo al capolavoro. 

Highlights: Papa was a rolling stone, Killing Floor, Stormy Monday


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