Recensione/ A Thousand Horses - Broken Heartland

Gli A Thousand Horses hanno impiegato sette anni a dare un seguito al debutto discografico, quel Southernality che avevamo recensito nel 2015 con tanta curiosità e passione (qui potete leggere la recensione). Sette anni in cui, come loro stessi hanno dichiarato contemporaneamente all'uscita del nuovo lavoro, avevano seriamente pensato di sciogliersi. 

Tutta colpa della pandemia, che aveva stoppato l'uscita imminente del disco. Da quel momento un rimando dietro l'altro, due membri che sono caduti nella depressione e nella dipendenza da alcool, una crisi di ispirazione ed anche il rigetto verso l'industria musicale. Peccato, perchè l'attesa era stata mitigata nel 2017 da un Ep, Bridges, che faceva intravedere un allontanamento dal country rock, flirtando con un suono più rock e con costruzioni più innodiche ("Blaze of something" suona dannatamente U2, ed ovviamente è un pregio). 

Broken Heartland non ha l'intraprendenza di quel Ep, ma qualcosa nella band è comunque cambiato. Nonostante una cover che potrebbe essere un programma, nonostante l'iniziale "Broken Heartland" scorra inesorabilmente verso sonorità trite e ritrite, pericolosamente vicine a Keith Urban (!) giusto per per farvi capire, sotto la cenere qualcosa sembra comunque bruciare. 

"Another mile" ad esempio fa il verso a Will Hoge con un ritornello a presa diretta, una bella slide guitar ed anche il pianoforte che fa il capolino. Potrebbe essere scontata, forse è anche l'intento della band di essere rassicuranti, però il pezzo è bello e non è nemmeno troppo ruffiano. Le chitarre arrivano con "Don't Stop", che la tira un po' troppo per le lunghe e fa il verso agli Stones, con un finale finalmente arrabbiato ed un coro gospel ben piazzato. Coro che torna prepotentemente in "Starting Fires", dal tipico schema strofa/ritornello/special dalle belle armonie vocali. Niente di trascendentale, giusto un po' meno ampollosi del debutto, che citando anche i Black Crowes (da lontano, ma l'idea c'era) in realtà in più di qualche passaggio strizzava l'occhio alla tamarrata.

"Define me" ricorda sonorità West Coast con una ballad azzeccata che si scosta dal clichè country/rock ed un assolo intrigante, come a dire il vero in tutto il disco. Dovessi fare un nome, mi vengono in mente i Magpie Salute, un incontro acustico elettrico riuscito. 

Purtroppo, e lo avete capito, qualcosa non è proprio a fuoco. L'insipida "Gone" è trascurabile, così come "Every time you love me", due brani che li portano pericolosamente vicini a Daughtry, roba da radio FM senza pretese. 

Alla fine, Broken Heartland fa difficoltà a raggiungere la sufficienza. Il disco è ben suonato, musicalmente i ragazzi ci sanno fare e sanno tirare fuori le unghie quando vogliono. Il problema sta nella forzatura di cercare a tutti i costi la canzone da radio ed essere sempre perfettini. A fine scaletta invece hanno sparigliato le carte con uno strisciante rock alla Stones/Black Crowes, "Carry me" che mi ha fatto gridare un sonoro "Finalmente!!". Non capisco: il potenziale di questo brano è enorme, perchè non seguirne le orme? 

Aspettiamo il terzo disco per capire se puntare ancora su questi ragazzi di Nashville oppure se lasciarli scivolare nell'oblio di una FM radio che fa sottofondo ad una giornata mediocre. 








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