Recensione / The War on Drugs - I don't live here anymore

Non ho mai amato particolarmente gli anni Ottanta. Certo, in quel periodo ho vissuto la mia fanciullezza e pre-adolescenza, dunque qualcosa nel profondo mi deve essere rimasto a causa delle musicassette in loop nell'auto con i miei genitori, DeeJay Television l'estate ad Ibiza, il famigerato "Professione vacanze" in replica costante tutte le mattine durante le vacanze estive ed un disco di mio zio contenente i grossi calibri delle classifiche del periodo, quali ad esempio gli A-Ha, la stupenda "Absolute beginners" di David Bowie, Phil Collins. Resta il fatto che tra me e gli anni Ottanta la scintilla non è mai scoccata.

La scintilla non era scoccata neanche con i precedenti dischi dei The War on Drugs, la band di Filadelfia che con I don't live here anymore è arrivata a sfornare il suo quinto disco in 13 anni. Ma è proprio con quest'ultimo lavoro che la mia attitudine ha iniziato a cambiare. Perchè, lo dico subito,  I don't live here anymore è un bel disco e contiene un elemento che - nell'A.D. 2021 - è merce rara: un'ottima scrittura che non si vergogna di licenziare canzoni melodiche ed appiccicose, ahimè un "vizio" che in troppi hanno perso. 

E la mia idea sulla band di Adam Granduciel è cambiata quando ho ascoltato il singolo che da il titolo all'album, una canzone semplice, con una nenia di chitarra annebbiata nelle tastiere, una batteria minimal ed un'altra chitarra che fende l'aria con interventi tenui. Su tutto, la melodia cristallina cantata da Granduciel, talmente semplice da risultare scontata, laddove scontata non è. Come tutte le canzoni che mi colpiscono, mi sono ritrovato ad ascoltarla in loop per qualche giorno. E' stato questo il segnale che mi ha spinto ad approfondire. 

Ed è così che ho scoperto un disco onesto, costruito come facevano gli artigiani nelle loro botteghe, suono sopra suono, senza mai spingere troppo sull'acceleratore, proponendo questi midtempo che scorrono placidi, con una attitudine certamente figlia degli anni Ottanta, anche se non sono troppo certo che l'intenzione fosse effettivamente di riferirsi a quel periodo. In "Living Proof" ad esempio sembra di essere capitati in un disco degli Wilco, un po' lo-fi, sussurrata, con il pianoforte che riempie di malinconia la stanza. Nella successiva "Harmonia's Dream" il ricamo è perfettamente costruito per evidenziare gli accordi pieni di un ritornello volutamente epico, con un finale in cui la chitarra, doppiando la melodia, entra proprio laddove sembrava dispersa. Sono proprio le chitarre ad avere un ruolo diverso, più in secondo piano, più a lavorare di fioretto, a cercare la nota giusta. 

In "Change" l'immersione negli Ottanta è totale, nonostante il filtro applicato nella voce ed una certa indulgenza nel crescendo del brano lascino intravedere uno spiraglio di indie-rock. Il problema è che il pezzo è monolitico e gira perfettamente su stesso, caratteristica tra l'altro di tutto il disco. Per cui, nonostante il plagio sia sempre dietro l'angolo, qualcosa di diverso si staglia all'orizzonte. E ciò che di solito mi lascia perplesso, qui mi tiene ancorato a queste canzoni.

Il dejà-vu prosegue anche con "I don't wanna wait", altro pezzone che brilla di luce propria, altra cavalcata non banale - stavolta contenuta in poco più di 5 minuti - in cui il refrain è killer e vi troverete a cantarlo sin da subito. Anche in questo caso, l'entrata delle chitarre fuzzose porta il pezzo più vicino all'indie, facendo in modo che un brano del genere non verrà mai trasmesso da Radio 105. E' un bene? Ovviamente si. Ed è una gran bella canzone. 

L'incipit di "Victim" ricorderà ai più anziani atmosfere da ballo in disco, naturalmente anni 80. Forse è l'unica caduta di tono del disco, anche perchè stavolta manca l'effetto a sorpresa. Decisamente meglio "Old Skin", guidata da pianoforte ed organo, il cui crescento è irresistibile sino all'esplosione di tutta la band. Forse una di quelle canzoni che gli U2 non sanno più scrivere. 

Si arriva così a "Wasted", gioiosa melodia che sembra ricalcare le cavalcate dei The Cure dei giorni più spensierati. Non è la vetta del disco, passa inosservata e forse è giusto così. Non lascia indifferenti invece "Rings around my father's eyes", vicina all'intensità del Dylan odierno, struggente nell'incontro tra un figlio ormai invecchiato ed alla ricerca della protezione della figura paterna. 

Si chiude con le chitarre acustiche di "Occasional Rain" (titolo stupendo), in cui ho rivisto le melodie eteree dei Grant Lee Buffalo (e forse mi sono ritrovato più a casa). Di certo è il brano più ancorato il passato dei The War on Drugs, a chiusura di un disco - lo dico - meraviglioso. 

Il bello della musica è la scoperta di simili album, inattesi, pieni di una ispirazione quasi inspiegabile, perfetti anche nei singoli dettagli. 

E complimenti ai The War on Drugs.


 


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