Ryan Adams - Big Colors

Nel mondo anglosassone è chiamata cancel culture, da noi è molto più nota come politicamente corretto. Utilizzate pure la lingua che più vi aggrada, fatto sta che più passano gli anni, maggiore è la deriva che questi termini stanno assumendo. Nella cancel culture si possono inserire politici sguaiati che è meglio dimenticare, battute taglienti che però è meglio censurare - prima che si innervosisca il sistema - ed anche musicisti sotto inchiesta. 

E' ormai cosa nota che Ryan Adams sia vittima, nei paesi anglossassoni, di forte ostracismo, alimentato da riviste di settore e giornalisti saccenti che di fatto lo stanno rimuovendo dal panorama musicale. Perchè?

All'inizio del 2019 Mandy Moore, ex moglie di Adams, anch'ella cantante nonché attrice, ha accusato l'ex marito di abusi psicologici e di aver cercato - negli anni di matrimonio - di ostacolare la sua crescita musicale. Al seguito della Moore altre artiste hanno accusato il cantante del North Carolina di aver abusato della sua fama per approcciarsi sessualmente e di averle soggiogate psicologicamente. 

Per sommi capi, questa è la storia. A onor di cronaca, va detto che la magistratura americana ha archiviato i fascicoli  e quindi, formalmente, il buon Adams non è più accusato di nulla. Evidentemente però, per la stampa è ancora "accusabile", poiché del fatto che nel giro di pochi mesi abbia dato alle stampe ben due dischi non se ne ha traccia nella stampa americana. In Italia invece qualche recensione si trova, anche se i toni in alcuni casi non sono certo garantisti, si legga ad esempio questo articolo di Gianni Sibilla su Rockol  nel quale si utilizza tutto un giro di parole per dire che ascoltare Adams sarebbe politicamente scorretto. 

Io la penso diversamente. Intanto, i giornali o le riviste non sono i tribunali, pertanto dovrebbero astenersi dal condannare prima del tempo qualsiasi persona (ma poi condannare di cosa, se la magistratura non ha dato nemmeno seguito alle accuse intentate?). In secondo luogo, faremmo tutti meglio a dividere l'artista dalla sua arte, altrimenti ci troveremo a cancellare per sempre dalle nostre playlist gente come Chuck Berry (furto d'auto, sesso con minorenni, evasione fiscale, tanto per citarne tre), Johnny Cash (trasporto illegale di anfetamine), Phil Spector (tentato omicidio), omettendo i vari flirt con carcere per abuso di droghe poichè la lista sarebbe troppo lunga. 

Se dunque la carriera di Adams sembra essere ad un vicolo cieco, altrettanto non si può dire per la sua musica. Big Colors infatti arriva poco dopo l'intenso e funereo Wednesdays, album con il quale Adams si è riaffacciato alla musica. Se quest'ultimo infatti è un disco di canzoni depresse ed oscure, quasi interamente registrato chitarra e voce, Big Colors è il seguito degli ultimi due lavori inediti di Adams, il disco omonimo del 2014 e Prisoner del 2017. Asse portante di questi lavori, e del presente album, è l'utilizzo di un mood di scrittura e di suono molto anni Ottanta e l'attitudine, ormai marchio di fabbrica del buon Ryan, di scrivere canzoni che in poco meno di 4 minuti e con un'architettura primitiva - strofa/ritornello - vivono di luce propria. 

Big Colors è tutto questo. Il disco si apre proprio con "Big Colors", che ricorda vagamente le atmosfere del primo disco dei Matchbox Twenty (qualcuno se li ricorda?), solo che Adams è più sporco e più ispirato dei ragazzi della Florida e soprattutto ha più classe da poter sfoderare e si salva con un ritornello orecchiabile ma non scontato. Molto meno ispirata è la successiva "Do not disturb", in cui il mood da metà anni Ottanta delle tastiere sembra strizzare l'occhio al Tom Petty più riflessivo, ma il pezzo non va da nessuna parte. 

Fortunatamente, il decollo ha inizio con "It's so quiet, it's so loud", in cui l'atmosfera alla Smiths è più che un profumo nell'aria, con quella voce che deve molto a Morrissey e quelle chitarre così circolari. E che la direzione sia quella giusta ce lo conferma "F**k the rain", in cui Adams è riconoscibile sin dalla prima nota, con un pezzo leggero nella musica ma non nelle liriche: stiamo pur sempre parlando di un'anima tormentata che sta cercando la redenzione da se stesso, se non piuttosto dal suo pubblico. Di gran classe l'assolo dell'ospite John Mayer, totalmente nel mood della canzone e quindi ancora più apprezzabile. 

A rafforzare l'amore per Morrissey & C. arriva "Manchester", addirittura spudorata nel citare gli Smiths sin da titolo.  E proprio come i suoi numi tutelari, queste canzoni sono piccole gemme, melodicamente perfette, rispettose della trafila strofa/ritornello eppure attraenti, forse per qualche motivo che si fa difficoltà a rintracciare dentro noi stessi. Si prenda "Showtime", nella quale ad una struttura già conosciuta fa da contraltare una melodia purissima e forse la miglior prova di Adams da qualche anno a questa parte, grazie ad uno struggente ritornello che vi scioglierà come neve al sole. 

Pur essendo dunque un disco già sentito, Big Colors contiene quelle intuizioni melodiche che hanno fatto la fortuna di Ryan Adams, si pensi alla conclusiva "Summer Rain", oscura come una canzone dei The Cult, in cui l'elettricità taglia l'aria e sembra di essere dentro una di quelle fotografie di Doisneau in cui l'attimo fugge via veloce. 

Certo, non siamo di fronte a dischi che hanno alimentato la storia musicale del cantautore di Jacksonville, come ad esempio Cold Roses o Easy Tiger, ma Big Colors è comunque un buon ascolto in queste serate roventi, il livello compositivo è buono e qualcuno di noi (il sottoscritto) iniziava a sentire la mancanza di questi ritornelli.

Peccato per la stampa americana, la cui sete di giustizialismo ha causato una miopia così grave.   

P.S. Se ve lo state chiedendo, sì, la copertina è orrenda

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