Ryan Adams - Prisoner

Non riesco nemmeno più a contare le recensioni o gli articoli che ho letto in questi anni su Ryan Adams. E tutti, indistintamente, a scrivere che il ragazzo di Jacksonville (North Carolina) è un talento sciupato dall'iperproduzione, da dischi pubblicati uno dopo l'altro con una urgenza ipertrofica, dalla smania di dimostrarsi a volte un rocker, altre un folksinger, altre ancora un countryman senza mai trovare la sua vera strada. Tutto vero? In parte lo posso accettare, la sua discografia dopo gli Whiskeytown (grande band) è imponente e raccoglie dischi bellissimi (Gold e Cold roses per chi scrive sono opere imprenscindibili, soprattutto la seconda) ad opere meno inspirate. Ma non è poi la storia di gran parte musicisti?

A mio avviso invece Adams si è messo più a fuoco quando ha dato alle stampe il precedente disco omonimo (sorvolo sul disco cover di Taylor Swift, 1989). Quell'album aveva dentro di se una scrittura asciutta, suoni decisi ed una direzione precisa: canzoni al massimo di quattro minuti con dentro tanto rock americano da manuale ed una spruzzata di Smiths.

A distanza di tre anni, Prisoner riprende la stessa formula, solo che due aspetti sono cambiati: il rock si è fatto un po' da parte per lasciare spazio ad un mood più cupo dovuto alla fine del suo matrimonio. Inoltre, i suoni hanno preso una virata decisamente anni ottanta, le chitarre propongono effetti quali echo e delay un po' sorpassati ed, in generale, la registrazione risente di un suono tagliente, che a lungo andare da fastidio, soprattutto se il disco lo si ascolta in cuffia.

Avevo notato già col predetto disco omonimo che i suoni avevano preso una strada netta: guardatevi i video live su youtube per capire come l'uso smodato di amplificatori Fender e chitarre come la Jaguar avessero dato a quell'opera dei toni alti e netti, lontani dalla tendenza odierna a costruire registrazioni più ovattate. Sono scelte, che però non incidevano sul giudizio globale del disco.

Per Prisoner invece anche l'aspetto dei suoni concorre a rendere l'album molto meno convincente. Sarà che Adams si è rinchiuso nel suo dolore e certe aperture melodiche alle quali ci aveva abituato sono qui difficili da ritrovare, ma in generale il disco non riesce a cambiare marcia. Certo, la title track è un buon episodio ed anche la linea melodica è una bella intuizione, così come "To be without you", ma cercare di fare il Bruce Springsteen come in "Outbound train" (già dal titolo...) lo pone in concorrenza con un mostro sacro irraggiungibile.

Laddove insomma Ryan Adams si era costruito un mondo ideale nel quale usciva fuori il suo talento, ora si è appiattito dedicandosi il minimo sindacale alla scrittura e lasciandosi trasportare dalla tristezza del momento (la cover è veramente esaustiva della situazione...).

Poco c'entrano dunque la sua prolificità od i lavori pregressi: se Adams comunque vi piace, nonostante i difetti in Prisoner troverete ancora qualcosa per continuare ad amarlo, anche se io vi consiglierei il disco precedente.  

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