Recensione/ Wilco - Cousin

Confesso di avere nei confronti degli Wilco sentimenti contrastanti. Da una parte, infinita ammirazione per quel cambiamento che, nel 2002 attraverso la pubblicazione di Yankee Foxtrot Hotel, li ha portati a cambiare strada, passando dall'essere una band tutto sommato inseribile nell'alveo del rock americano a diventare un ensemble sperimentale, pieni di riferimenti ma anche molto meno a "presa diretta". Nell'approcciare dunque un disco degli Wilco bisogna armarsi di pazienza e ripetuti ascolti, consapevoli che prima o poi il gancio arriva. Sarà così anche per Cousin?

Il disco si apre con "Infinite surprise", una nenia tutto sommato dal facile approccio, ovviamente allungata nella composizione, con una chitarra che lascia il posto nella seconda parte ad un mellotron molto anni settanta. Da una parte sembra un brano dei Cure, però destrutturato. Fin qui, Wilco sino al midollo. La successiva "Ten Dead" è una canzone cupa, cantata con un filo di voce, probabilmente la denuncia di un'america ordinaria nella quale l'uso delle armi di fuoco è ormai entrato nella quotidianità. Il pianoforte accompagna e regge l'arrangiamento, nel finale gli strumenti crescono e con loro il pathos. Un brano dal peso specifico non banale. 

"Levee" riprende una forma canzone abituale, con una chiara suddivisione tra ritornello e strofa e stavolta a condurre le danze è un arpeggio di chitarra ed una batteria minimale. Ecco uno dei primi agganci del disco, con una melodia strisciante che entra in circolo pian piano, come d'altronde nella successiva "Evicted", in cui iniziamo a assaporare la perfezione indie-pop dei Wilco, qui oggettivamente molto bene a fuoco. L'elettronica light della band accende la lenta "Sunlight ends", in cui una pedal steel piena di reverbero sembra abbracciare una antica nenia country. Non siamo ovviamente da quelle parti ed il brano è un po' faticoso, soprattutto dopo le ottime "Levee" e "Evicted". Ma siamo già a metà disco, possibile?

L'arpeggio acustico di "A bowl and a pudding" ci introduce ad una ipotetica facciata B di Cousin, ed è evidente il richiamo a Schmilco, il loro album del 2016 chiaramente ispirato all'alt-country. Il marchio di fabbrica dei Wilco degli anni dieci c'è tutto, con la maniacale attenzione agli arrangiamenti e gli strumenti che entrano ed escono dal mix in maniera quasi impercettibile. Il ritmo torna a fare capolino in "Cousin", la title track con un ritornello dannatamente convincente. Sono certo che se ascoltassimo questo brano senza l'arrangiamento così ricercato, troveremo una canzone limpida con una linea vocale da pop song definitiva. "Cousin" si merita di dare il nome al disco. 

"Pittsburgh" non nasconde una forzata malinconia ("Mi piace la pioggia/ e come la pioggia può trasformare/ la merda in una rosa") ma non aggiunge nulla al quadro sinora descritto se non confermare una seconda parte del disco in cui gli echi dell'alt-country sono più evidenti. Bella la chiusura con "Meant to be", con la sezione ritmica che scioglie le briglie e soprattutto un arrangiamento snello che lascia la canzone crescere armonicamente. 

Dunque, com'è Cousin? Rispetto ad alcuni lavori più recenti del gruppo, sicuramente più accessibile sin dal primo ascolto, grazie all'immediatezza di canzoni come "Cousin" o "Meant to be". Certo, non è musica da sottofondo, tantomeno si può etichettare facilmente come rock, semmai è da considerare rock nel suo approccio più profondo e nella libertà di mischiare generi e strumenti. Siamo però tutti d'accordo che qui di classe ce n'è molta 

Highlights: Cousin, Evicted, Meant to be


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