Recensione/ The Rolling Stones - Hackney Diamonds

Premessa. Hackney Diamonds, il nuovo disco dei Rolling Stones, è uscito venerdì scorso, 20 Ottobre. Come tutti i comuni mortali, venerdì pomeriggio mi sono armato di pazienza, sono andato in centro e mi sono portato a casa la mia copia, per la quale ho fatto spazio nella cospicua discografia degli Stones. In questi giorni, anche prima dell'uscita fisica del disco, mi sono letto diverse recensioni e devo dire che ho trovato chiavi di lettura che mi hanno lasciato perplesso.

Lettura globale. Iniziamo dalla lettura globale del disco. Hackney Diamonds  è di molto superiore al suo predecessore A bigger band (2005) ed anche al pur buono Bridges to Babylon (1997) perché è un lavoro coeso, in cui non esistono momenti vuoti e soprattutto scorre via con una fluidità apprezzabile. Il lavoro di Andrew Watt alla produzione è perfetto nel dare modernità ai suoni ed alle strutture della band senza per questo uscire dal marchio di fabbrica. Insomma, i riff di Richards con l'accordatura in SOL aperto ci sono ancora, anzi sono l'asse portante di tutte le canzoni e se vogliamo sono anche gli stessi che ascoltiamo da 60 anni (!), ma l'obiettivo è stato quello di inserirli in una produzione aggressiva e moderna senza mai suonare falsa o plasticosa. Se ascoltate Hackney Diamonds nel vostro compact stereo non serve alzare il volume per sentire una "botta" sonora importante. Il tutto è aiutato da Steve Jordan, sostituto di lusso del compianto Charlie Watts, il quale pur cercando di restare nel solco del mitico sound di Charlie, inevitabilmente dona al disco un groove incessante, sul quale le chitarre si inseriscono alla perfezione. Anche nei due brani in cui è Charlie a suonare la batteria, l'interpretazione è più rock, segno che la produzione ha voluto dare sin da subito un imprinting preciso al lavoro. Dal punto di vista chitarristico, il mixing ha messo sia Keith che Ronnie al centro, col fine di creare un impasto sonoro monolitico in cui non si distinguono le due chitarre e ho l'impressione che una terza chitarra suonata proprio da Watt sia "nascosta" dentro le tracce. Comprensibile, soprattutto se si è vista la condizione live di Keith, la cui artrite (da lui stesso confermata) non sembra permettere troppi voli pindarici. 

Le canzoni. Si apre con il singolo "Angry", stonesiano che più con si può, anche troppo. Avendolo ascoltato già da un mese, il pezzo col crescere del tempo perde vitalità, nonostante il groove di Jordan lasci già una forte impronta. Il riff sembra fare il verso a "Start me up" e ne abbiamo già sentite abbastanza di canzoni su quella falsariga. Rivedibile.

Si inizia però a godere sin dalla seconda traccia, con quella "Get close" che, ancora, lascia al groove di Jordan le chiavi in mano per introdurre un arpeggio di Ronnie che spiana la strada ad un riff dal sapore funk. Ritornello e special sono infuocati, così come le percussioni che amplificano la sezione ritmica. Una delle cose migliori degli Stones da almeno 40 anni.

Le acque si placano con la terza traccia, un lento cantato divinamente da Mick Jagger (che è il vero protagonista del disco). Il suono è moderno, l'accordatura aperta delle chitarre crea un'atmosfera sognante che si sposa benissimo con l'entrata degli archi. Tanto lavoro di produzione per una canzone che, pur non essendo nelle corde degli Stones, risulta convincente. 

Con "Bite my head off" si torna alle atmosfere quasi punk di "Some girls" (qualcuno ricorda "Respectable"?), con l'aggiunta di un certo Paul McCartney al basso, che in questi tre minuti suona distorto ed incazzato. Si poteva forse sfruttare meglio la presenza di Sir Paul in studio. 

Va molto meglio con "Whole Wide World", un brano che suona molto anni '90 e che mi ha ricordato anche certi arrangiamenti di Bob Dylan. Comunque la canzone ha un ottimo passo nonchè un'altra splendida prova di Mick, la cui voce suona più convincente di 30 anni fa. Incredibile. 

Attraversiamo "Dreamy Skies" senza troppi clamori per giungere con emozione ai due brani con Charlie Watts alla batteria.  Qui è d'obbligo una riflessione in più, perchè il drumming di Charlie è talmente insito nel sound della band che non appena si schiaccia play su "Mess it up" l'impressione è che qualcosa sia tornato a casa, dopo 6 tracce in cui gli Stones erano sin troppo adrenalinici. Quel modo di suonare il rock, un po' jazzy, rende più elegante il tutto, ma soprattutto rende l'orecchio assuefatto ad un suono che conosciamo a memoria. A mio avviso, "Mess it up" è un altro highlight del disco, un brano di puro rock'n'roll che si trasforma quasi in una canzone disco, anche qui tornando ai tempi (indimenticabili) di Some girls. Il charleston in levare di Watts è pure goduria.

E un ulteriore tuffo al cuore lo si prova leggendo nel booklet interno la formazione che suona in "Live by the sword": Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood, Bill Wyman, Charlie Watts. L'ultima volta in studio insieme è datata 1989, per l'album Steel Wheels, 34 anni or sono. Ed ovviamente, la canzone è un blues moderno con un crescendo di pathos in cui a prendersi la scena, più che le chitarre, è il pianoforte dell'ospite Elton John.

C'è ancora tempo per il solito marchio di fabbrica di Richards, qui alle prese con l'oscura "Tell me straight", al solito interessante come tutte le canzoni cantate dal buon Keith, ormai oggetto di culto per i fan. 

Si chiude con il botto.   "Sweet sound of Heaven" è una ballad emotivamente coinvolgente, che Mick canta con cuore in mano, come solo lui sa fare. Accompagnato da Stevie Wonder al pianoforte e supportato da una Lady Gaga in vena di preziosismi, anche questa canzone abbiamo imparato ad apprezzarla, in quanto uscita come secondo singolo. Da qui è iniziato il tam tam dei fan perchè il pezzo è talmente convincente da aver messo a tutti la pulce nell'orecchio che il disco fosse altrettanto valido (così come effettivamente è). 

Quei volponi di Mick e Keith chiudono il viaggio registrando in solitudine una cover di "Rolling Stones blues" del loro amato Muddy Waters. I rumors raccontato di un Keith che per l'occasione ha rispolverato una  vecchia Gibson anni '30, mentre Mick accompagna la voce con l'armonica. E' un momento emozionante ma anche la dimostrazione di una classe immensa, da parte di due musicisti che hanno contribuito in prima persona alla storia del rock.

Conclusioni. Era necessario un nuovo disco degli Stones? Stavolta ed incredibilmente la risposta è sì. Sì, perchè i Rolling Stones non potevano lasciarci con lo scialbo A bigger bang. Sì, perchè questo è il miglior tributo possible a Watts, che ci ha lasciato due tracce che da sole spiegano la sua importanza all'interno della band. E un sì convinto anche per aver scelto un produttore moderno ma di grande talento, uno che rispettando la storia degli Stones ha lavorato per renderli più contemporanei, senza cambiarli di una virgola. 

Ovviamente, i Rolling Stones continuano a fare loro stessi, e a chi in questi giorni scrive che hanno sfornato un disco pop, rispondo ricordando che pop(ular) gli Stones lo sono sempre stati, solo che per anni essere rock voleva dire scrivere canzoni popolari. Oggi, essere rock vuol dire altro. Ecco, Hackney Diamonds ha una platea vastissima, a dimostrazione che con 2 accordi si può cambiare il mondo.


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