Recensione/ Cardinal Black - January came close

 Ammetto che negli ultimi anni non molti dischi mi hanno fatto sobbalzare dalla sedia e questo, percepisco nel giro delle mie molte amicizie musicali, è un pensiero diffuso. Però l'ascolto di novità non è mai venuto meno e spesso vira verso un piano più chitarristico, in quanto io stesso sono un chitarrista, una nota biografica che non ho mai celato qui.

Stavolta si fa un'eccezione alla regola per recensire il disco di esordio di una band non americana bensì scozzese, i Cardinal Black. La convinzione che January came close dovesse trovare spazio in queste pagine è dovuta al fatto che il disco mi ha convinto nel suo unire un rock stratificato e sognante (soprattutto nei suoni) con una chiara matrice soul, gran parte figlia della voce di Tom Hollister. Sono arrivato sino alla band di Cardiff seguendo le tracce di una giovane promessa della chitarra che risponde al nome di Chris Buck. Buck, nonostante abbia da poco superato i trent'anni, si è già fatto un nome nelle riviste specializzate, ricevendo anche l'onore di essere accolto come special guest da un certo Slash in uno dei concerti di quest'ultimo. Nel 2021 il chitarrista di Cardiff comunicava di aver formato una band, appunto i Cardinal Black, ed il più facile dei percorsi avrebbe voluto un gruppo asservito all'estro funambolico del ragazzo prodigio. 

Niente di tutto ciò, perchè i Cardinal Black suonano dannatamente come un gruppo di quattro musicisti senza prime donne e, soprattutto, hanno le canzoni giuste. Così ci ritroviamo davanti a dieci brani di chiaro stampo soul, alcuni talmente accorati da arrivare direttamente dagli anni Cinquanta, come nella splendida "I'm ready", che però risentono di un suono curatissimo ovviamente figlio del nostro tempo. E qui sta la grandezza di Buck, che entra come una lama calda nel burro con la sua chitarra piena di blues ma curatissima nel suono e con delay che sembrano rimandare al The Edge più ispirato. E' questa una formula spiazzante e vincente, che si sublima in "Tell me how it feels", un pop/soul elegantissimo che smussa gli angoli per risultare perfetta.

Lo schema forse è un po' ripetitivo, con uno schema di canzone che nel finale lascia a Buck una coda strumentale, anche se il ragazzo merita tutto la spazio e soprattutto lo sfrutta senza mai esagerare. In January came close infatti nessuna nota è di troppo, ed è tanto se si considera che stiamo parlando di un disco di esordio. Questo incontro tra tradizione e modernità è ben evidente nell'iniziale "Rise up", dove un organo Hammond tiene su la canzone insieme ad una chitarra che proviene dallo spazio, oppure in una "Where do you go" che è forse l'unica vera tentazione pop, portata comunque a casa con maestrìa.

Se un gruppo scozzese mi ha convinto ad inserirlo su queste pagine, vuol dire che il prodotto è veramente convincente. Ma, soprattutto, è un disco di canzoni. Il che, nel 2023, vale tanto. 





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