The Band of Heathens - Simple Things

Le band che mi piacciono, che poi sono quelle che recensisco, hanno in fondo un fil rouge che le accomuna. Di norma, propongono rock americano, sono composte tendenzialmente da cinque o sei componenti e rifuggono la novità in favore di una predilezione per il formato canzone. Chi segue ormai da anni questo blog conosce il perchè di certe scelte. 

Tutte queste caratteristiche sono racchiuse anche nella proposta dei The Band of Heathens, che dal 2008 ci propongono il loro rock americano, mescolato con della sana americana (inteso come genere) ed intriso, non sempre ma spesso, di un afflato soul piacevole. Con Simple Things i ragazzi di Austin, Texas, sono arrivati all'ottavo disco, ed in quindici anni di carriera vuol dire che almeno ogni 2 anni abbiamo tra le mani un lavoro inedito dei The Band of Heathens. Una parte dei problemi sicuramente risiede in questa iper-prolificità, perchè non tutti possono avere la vena fluente di Ryan Adams e qualche volta in questi anni i ragazzi si sono persi, tanto che dischi come Duende e Stranger non ho reputato opportuno recensirli perchè sin dai primi ascolti mi sono sembrati banali. 

In fin dei conti, la cifra della Band di Pagani (un giorno capiremo il perchè di questo nome...) è quella di un rock semplice, melodico, mai troppo sopra le righe, mai urlato, fatto di melodie semplici. Capirete che senza l'ispirazione, la proposta rischia di cadere nell'anonimato. Così non è - per fortuna - per Simple Things, pubblicato il 17 marzo scorso e che mi ha convinto dal primo ascolto. Intendiamoci, i Band of Heathens sono sempre loro, ma finalmente sono consapevoli che la loro più grande forza è quella di pescare nella tradizione, senza vergogna ma soprattutto senza paura di trovare nelle appiccicose melodie del sud la ragione della loro musica. 

Non può dunque passare inosservata la vena sudista di "Don't let the darkness", coretti gospel in sottofondo e bel movimento di batteria, nonchè un organo Hammond bello presente, quasi a rubare la scena. Qualcosa di già sentito? Assolutamente si, ma non è un problema, anzi...

Si prosegue con atmosfere più pop in "Heartless Year", con un intro che ricorda molto gli Wallflowers più bucolici, anche se il suono dei ragazzi di Austin è meno curato, più rock nell'attitudine. Ed il rock esce diretto nella successiva "I got the time", sinuosa come la "Honky Tonk Woman" degli Stones, di cui riprende sia il riff che una certa insolenza, anche se qui la dose di soul è massiccia. 

La ballatona arriva alla quarta traccia con la title track: "Ultimamente mi sono fatto delle domande/le cose che non hanno risposta/ mi tengono sveglio la notte su di un filo/ mentre il mondo sotto va a fuoco/e mi sembra di non riuscire ad arrivare in tempo per spegnerlo" che con il suo dolente pianoforte ed una melodia cristallina è il punto focale dell'intero lavoro, il ritorno alle cose semplici, le serate a cantare chitarra e voce, le risate condivise, il vino sulla tavola. Ma è anche la cartina tornasole dell'approccio della band nello scrivere e registrare questo album, in cui ogni strumento è perfettamente al suo posto, senza tecnicismi, senza esercizi da studio di registrazione. 

Arriva così anche la lap steel che apre "Long lost son", oppure gli echi alla Little Feat di "Stormy Weather", o ancora il country rock di "Damaged Good", sempre con tanto soul. Ma ciò che rende giustizia alla band è la scrittura, stavolta quasi a cuore aperto, come nella conclusiva "All that remains", con un bellissimo arrangiamento orchestrale ed una drammatica ma quanto mai lucida descrizione del tempo che passa, il tutto su una costruzione di chiaro stampo Beatles. 

Dieci canzoni a fuoco, idee chiare e tanto da raccontare. Gli ingredienti stavolta ci sono tutti. 

Highlights: Don't let the darkness, Simple things




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