Recensione / Marcus King - Young Blood

Quando nello scenario musicale - ma vale per l'arte in generale - arriva un talento, gli addetti ai lavori non faticano troppo a riconoscerlo. L'esordio nel 2015 della Marcus King Band era stato dirompente, perchè quella voce ma soprattutto quel modo infuocato di suonare la sua Gibson 335 bastavano a far intuire che il ragazzo del South Carolina avesse tutte le carte in regola per diventare "qualcuno".

Ed è stata, invero, una crescita costante, passando per altri due dischi a nome Marcus King Band (tra cui il bellissimo Carolina Confessions, di cui trovate qui la recensione) per poi mettersi "in proprio", prima con lo stiloso El Dorado, ora con Young Blood. E proprio con Young blood esplode il talento del buon Marcus, che presentandosi nella spoglia formazione in trio incentra tutto il disco sulla sua maestrìa con lo strumento e sulla sua voce piena di blues e ricca degli accenti che solo il Delta sa donare. 

Iniziamo dicendo che Young Blood è un disco che ogni appassionato di chitarra deve avere, trovandogli un posto fisico nella libreria insieme ad Axis: Bold as love di Hendrix, Texas Flood di Stevie Ray Vaughan, ma anche con ormai conclamati eroi moderni della sei corde come Joe Bonamassa o Kenny Wayne Shepherd, di cui tra l'altro consiglio l'accorato Trouble is. Young Blood è lì perchè non può stare da nessun altra parte, in quanto è un disco che in undici tracce rinnova i fasti di uno strumento attraverso la sua versione più acclamata ed al contempo complessa: una chitarra, un basso ed una batteria. 

In questo album i riferimenti sono ben chiari, con echi evidenti di ZZ Top, Hendrix e Free, tre nomi non banali, ma anche una grande responsabilità che il chitarrista di Greenville sembra non subire, se è vero che anche il brano più derivativo del lotto, quel "Pain" che sembra uscire da Rio Gande Mud degli ZZ Top, viene comunque affrontato con una nonchalance da primo della classe. Insomma, sappiamo bene quali sono i crediti e quale musica stiamo ascoltando, eppure queste undici canzoni sono comunque folgoranti. In "Hard Working Man" ad esempio ritmo e reef rimandano direttamente ad un hard blues di cui conosciamo benissimo le coordinate, eppure il gioco piace ed entusiasma, perchè il trio suona pompato, frenetico, dannatamente pieno di rock e la chitarra....

Eh si, è il modo in cui Marcus tratta le sue Gibson - stavolta nel lotto entra anche una Les Paul Custom da urlo - che trattiene incollati alle casse: funambolo senza mai entrare nell'eccesso, il ragazzo riesuma sensazioni che sembravano rimosse, anche quando l'atmosfera si fa più tranquilla, come in "Rescue Me", in cui emerge la classe e non l'impeto. 

Non lo definirei un lavoro maturo, bensì un album necessario e che non si vergogna di pescare nel rock quello più classico, quello in cui la diade riff + assolo era un mantra e noi stavamo lì ad aspettare il numero del grande illusionista. Fa piacere assistere in diretta all'entrata di Sir Marcus in quel cerchio stretto di artisti che ci fa o ci ha fatto rizzare i peli. 




   

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