The Jimi Hendrix Experience - Axis: Bold as love

Nel Maggio dell'anno di grazia 1967, Jimi Hendrix poteva già fregiarsi di aver cambiato per sempre la storia della musica ed, in particolare, la storia dello strumento simbolo del rock (con e senza il roll): la chitarra elettrica. 

Esattamente un mese prima infatti, nell'Aprile dello stesso anno, grazie alla pubblicazione dello sconvolgente Are you experienced, la Jimi Hendrix Experience, al secolo oltre ad Hendrix Mitch Mitchell alla batteria e Noel Redding al basso, il chitarrista americano aveva cambiato per sempre la storia della chitarra elettrica. Grazie al tris di singoli che anticipavano il disco, nell'ordine "Hey Joe", "Purple Haze" e "The wind cries Mary" (ci pensate, tre canzoni di questa caratura una dietro l'altra?), Hendrix era divenuto la next big thing della sei corde, sfoggiando una tecnica unita ad un'innovazione del suono che aveva spazzato via almeno 15 anni di musica.  Quel disco, non bastassero quei 3 epici brani, conterrà anche perle quali "Foxy Lady" e "Fire", tanto per dire. 

Con la copertina di tutte le riviste musicali ed il disco in cima alle classifiche, il trio entra in studio ed Hendrix ha già in mente come stupire nuovamente il mondo. Lo farà attraverso una sperimentazione fino a quel momento mai raggiunta, nonchè con un livello di scrittura altissimo. 

Se infatti Are you experienced vedeva l'impeto chitarristico marchiare a fuoco l'intera opera, in Axis: Bold as love è la bellezza delle canzoni a marcare una netta differenza, insieme - come già scritto - ad un suono di chitarra spaziale. Quel "suono" figlio delle geniali intuizioni di Hendrix unite alla maestria ingegnieristica di Roger Mayer. L'unione di questi due talenti portò Hendrix ad utilizzare durante le registrazioni dei suoni innovativi, grazie all'uso di un pedale fuzz appositamente costruito da Mayer per il suo pupillo - appunto il Roger Mayer Axis Fuzz -  e del già utilizzato nel disco precedente Roger Mayer Octavia. 

Roger Mayer Axis Fuzz
L'ignaro ascoltatore che il 1 Dicembre del 1967 (data di pubblicazione dell'album) poggiò con delicatezza e trepidante attesa il vinile nel piatto, si trovò di fronte due brani agli antipodi. Prima di tutto, lo strano talk di "EXP", non una canzone ma un dialogo tra un dj (Mitch Mitchell) ed un alieno (Jimi Hendrix), della durata di poco meno di 2 minuti. Quando lo scherzo ha fine e sei in attesa che una chitarra distorta ti conduca verso un assolo indimenticabile, ecco che "Up from the skies" irrompe in tutto il suo...jazz. Eh si, perchè i delicati accordi di nona e settima rendono l'atmosfera di gran classe, mentre la voce di Hendrix quasi sussurra. Con Are you experienced tutto ciò non ha nulla a che fare, eppure il pezzo gira che è un piacere e l'effetto sorpresa è servito alla perfezione. 

"Spanish Castle Magic" però riporta ordine, piena di fuzz e stop/ripartenze da lanciare all'ascoltatore una scialuppa di salvataggio: si, la Hendrix Experience ha ricucito è pur sempre la macchina da guerra ammirata in tutto il mondo con l'acclamato esordio. 

Per "Wait until tomorrow" vale la pena ripescare il ricordo del produttore Chas Chandler, il quale raccontò che il riff particolarmente insidioso del brano (provate a suonarlo, pura goduria ma difficilissimo da riprodurre fedelmente) costrinse Hendrix a provarlo per una notte intera, sino a trovare la registrazione giusta solo a mattino inoltrato: d'altronde anche i grandi hanno bisogno di esercitarsi. A parte questo godibile ricordo, "Wait until tomorrow" è esaltante nel suo saliscendi di vuoti e pieni e diventerà un grande classico dal vivo, oltre ad essere annoverata ancora oggi tra le canzoni più coverizzate del genio di Seattle, basti pensare alla versione tribute che il John Mayer Trio propone in Try!. 

"Ain't no telling" dovrebbe essere un divertissement di poco superiore ai 2 minuti, solo che non passa inosservato ed anzi, con il suo suono grezzo ed il ritornello appiccicoso rischia di diventare l'apripista di ciò che, oltre vent'anni dopo, sarà il grunge. Ascoltare per credere. 

Siamo arrivati alla sesta traccia, ed è l'apoteosi. Considerata da sempre una delle canzoni più belle del rock, nonchè la prova provata della grandezza chitarristica di Hendrix, "Little Wing" è probabilmente la canzone più stupefacente della Hendrix Experience ed anche quella che ha fermato il tempo. Il lunghissimo intro altro non è che il biglietto da visita del più grande chitarrista venuto al mondo, che allo stesso tempo riesce a suonare la parte ritmica e la solista, in un intreccio inestricabile che commuove. Quando parte la voce, la melodia eterea contribuisce a creare un pezzo leggendario e - incredibile - l'assolo finale è solo abbozzato e si perde nel fade out. Non è mai banale sottolineare come, nel mondo della chitarra ci sia stata una netta divisione tra ciò che era prima di Hendrix e ciò che è venuto dopo, ma va assolutamente evidenziato che il picco di "Little Wing" resta ancora oggi inarrivabile, in considerazione di una assoluta congiunzione tra pathos, maestria chitarristica e forma canzone. 

Il buon recensore ha delle oggettive difficoltà ad andare oltre "Little Wing", ma "If 6 was 9" non può non essere citata sia per il tempo inusuale per un brano rock (il famigerato 6/8) che per la forma decisamente psichedelica. E' questo il brano più lungo del disco e non a caso, perchè nel vinile (che era l'unica versione commercializzabile nel 1967) concludeva il lato A. I dischi andrebbero riletti con le motivazioni dell'epoca, così se risulta un po' fuori luogo oggi ascoltare i 5 minuti e mezzo di "If 6 was 9", nell'interezza delle due facce del vinile assume tutta un altro significato. 

La magia del suono ritorna prepotentemente nella traccia 8, che abbiamo ben compreso essere in realtà l'incipit del lato B. "You got me floatin'" combina ad un bel riffone rock ad un suono fluttante, figlio dell'utilizzo massiccio dell'Univibe, sorta di leslie per chitarra. Non bastasse tutto ciò, ecco un assolo registrato al contrario, un effetto reverse assolutamente innovativo per l'epoca. D'altronde, lui è Jimi Hendrix, folks!

Con "Castle made of sand" Hendrix sforna un altro mid tempo che entrerà nella storia, riprendendo sia per costruzione musicale che per la tecnica chitarrista il discorso già intrapreso con "Hey Joe". Stavolta il suono della Stratocaster è scevro di effetti, mostrandosi in tutta la sua purezza. Da qui, nonostante la bellezza di "One rainy wish" e di "Little miss lover" - tralasciando il riempitivo "She's so fine" che vede alla voce nientepopòdimenoche Noel Redding - si arriva a quella che per me è la canzone più bella di Hendrix, ovvero la title track "Bold as love".

Introdotta magicamente da uno stop chitarristico su cui si infila il cantato di Hendrix con quel "Anger!" quasi irruento che lascia immediatamente spazio alla dolcezza di  "...he smiles...", "Bold as love" è un concentrato che racchiude in 4 minuti l'intera arte Hendrixiana, in una ballad elettrica pazzesca dal punto di vista tecnico - qui torna l'accordo/assolo continuo già introdotto in "Little Wing" -  unita ad un gusto unico per la melodia, con un outro che ospita un assolo che, ascoltato oggi a 54 anni di distanza, risulta talmente moderno da essere registrato ieri. 

In conclusione, Axis: Bold as Love è un disco epocale, spesso troppo stretto tra le maglie di un predecessore ingombrante e del successivo Electric Ladyland in cui il focus è tuto incentrato sull'arte funambolica di Hendrix. Qui invece c'è un Jimi perfettamente in equilibrio tra tripudio chitarristico, scrittura e sperimentazione. Se gli altri dischi valgono un 10 pieno, qui il voto sarebbe un meraviglioso 10 e lode, incluso bacio accademico.

(inizia con Axis: Bold as love un ciclo di recensioni su album che hanno cambiato la storia della chitarra elettrica. Ovviamente, in quanto io stesso chitarrista, la scelta dei dischi è assolutamente personale e risente dei miei gusti personali, dunque rock e blues in primis. Il tag per seguire questa serie di recensione è album per chitarristi)

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