Recensione/ The Wallflowers - Exit Wounds

Per una motivazione incomprensibile - e della quale non riesco a capacitarmi - in 10 anni di vita di bluespaper non ho pubblicato nemmeno una recensione dei The Wallflowers. Perchè mai?

E' un dato sul quale non avevo mai ragionato, considerato che da una veloce query sulla pagina di gestione del blog emerge come l'argomento Wallflowers sia inserito in almeno 14 post. Questo perchè la band di Jakob Dylan è una delle motivazioni che stanno dietro la nascita di bluespaper, vale a dire il mio amore per il rock americano o per quello che io - rubandolo ad Allmusic - definisco col termine American Trad-Rock. Ed essendo io ormai un arzillo quarantatreenne, il tutto non può che aver avuto inizio con quel dittico fenomenale di metà anni 90 composto da August and everything after dei Counting Crows (1993) e Bringing down the horse (1996) degli Wallflowers, che hanno riportato al centro del villaggio le sonorità roots ed una forte attenzione alla melodia, il tutto andando a pescare nell'eredità dei vari The Band, Dylan, Little Feat ed ovviamente Bruce Springsteen. 

Se dunque gli Wallflowers sono la spina dorsale di questo umile blog, come mai questa è la prima recensione? Nel 2012 effettivamente la band di Jakon aveva pubblicato Glad all over, un album sul quale, sin dal primo momento, ho avuto più di una perplessità. Quei Wallflowers sembravano smarriti ed incerti sulla giusta strada da prendere ed infatti il disco risultò altalenante ed a tratti anche incomprensibile (non ho mai digerito quel pasticcio in odore di Clash in "Reboot the mission"). Inoltre, in Glad all over alcune scelte sulla line up non convincevano: Jack Irons alla batteria (un passato ingombrante in Red Hot Chili Peppers e Pearl Jam) era ovviamente fuori focus, oltre ad essere universalmente riconosciuto come un musicista vicino all'alternative; Stuart Mathis alla chitarra, nonostante un pedigree di tutto rispetto (su tutto, il far parte in pianta stabile della band di Lucinda Williams) non è mai riuscito ad entrare nel suono della band di Jakob. 

Di Glad all over dunque non c'è traccia di recensione in questo blog. Nel 2014 ho avuto l'immensa fortuna di assistere all'Hammerstein Ballroom di New York ad un doppio concerto per me atteso da anni: Wallflowers e Counting Crows insieme. Nonostante i primi fossero comunque quella grande band che bramavo da anni di vedere live, rimasi interdetto da quella line up. 

Non erano solo impressioni di un fan se Dylan jr. ci ha messo 9 anni per riesumare il marchio Wallflowers con un nuovo lavoro, stravolgendo tutta la band. Degli Wallflowers che conoscevamo non c'è più nessuno: Rami Jaffe, storico tastierista, è ormai definitivamente volato alla corte di Dave Grohl e dei suoi Foo Fighters, anche se non c'entra nulla con loro ed è il suo apporto è impercettibile (archiviatela sotto la voce pecunia non olet), Mario Calire, che ha firmato i drum set dei migliori dischi, ha abbandonato la nave da tempo a favore dei semi-sconosciuti Ozomatli. Greg Richling, co-fondatore della band, oggi fa il produttore a  tempo pieno. Da anni ormai è uscito dal gruppo Michael Ward, chitarrista talentuoso che ha rappresentato la vera spina dorsale della band nel capolavoro Bringing down the horse; la sua assenza nei Wallflowers ha coinciso con l'ammorbidirsi del suono e con la perdita di alcune intuizioni musicali mai banali.

Al posto dei suoi vecchi sodali, Jakob Dylan si è fatto aiutare dall'amico Butch Walker, che gli ha cucito addosso una band ad hoc andando a pescare Val McCallum (storico chitarrista di Sheryl Crow), Mark Stepro (batterista turnista anche con Jackson Browne e Margo Price), Whynot Jensvelt al basso (Sara Bareilles, Gavin DeGraw) e Aaron Embry alle tastiere, uno che ha lavorato con Daniel Lanois, tanto per chiarire. Butch Walker, prezzemolino pop che non disdegna virate nell'hard, oltre ad essere il produttore ed il deus ex-machina del disco, si è ritagliato anche il ruolo di chitarrista ed ha consigliato a Dylan di far entrare sulla barca Shelby Lynne, una scelta che risulterà vincente. Se il nome della Lynne, regina del country, può sembrare fuori luogo, il filo si deve riannodare partendo non dall'ultimo disco dei Wallflowers, bensì dalle due prove soliste di Jakob Dylan: Seein Things del 2008 ed il successivo Women + Country del 2010. Quei dischi, intimi ed acustici, avevano un chiaro afflato country, di cui in Exit Wounds si sentono rimandi inequivocabili. 

Fatta questa lunga ma doverosa premessa, entriamo in Exit Wounds. Il numero talentuoso Dylan se lo gioca subito con la prima traccia, facendo centro: "Maybe your heart's not in it no more" è un gran bel pezzo acustico, che poggia sull'intreccio Dylan/Lynne e scivola via come acqua fresca dalle mani, acqua corroborante in questa estate torrida. Gli Wallflowers di un tempo avrebbero aperto con un brano elettrico e dal ritornello/tormentone, è evidente che qui stiamo per assistere ad una storia diversa.  

"Roots and wings", il singolo apripista, la conosciamo già ed abbiamo avuto modo di apprezzarla ascolto dopo ascolto. Si ritorna al sestetto rock, con una chitarra molto pop ed un'altra che entra in slide e con inserti timidi di pianoforte. Se ad un primo ascolto poteva sembrare un brano loffio, "Roots and wings" si rivela molto più stratificato di quanto possa apparire e nasconde dentro se una melodia killer ed anche un ritmo quasi reggae, anche se molto ben nascosto.

Sulla falsariga dell'opener, "I hear the ocean (when I wanna hear trains)" scivola via piacevole, anche se la scrittura non è allo stesso livello. Spiazzante "The dive bar in my heart", che nasconde un arrangiamento complesso a partire da una chitarra piena di eco che introduce la melodia, per passare ad uno special in cui Butch Walker ha l'idea (geniale, c'è poco da aggiungere) di alzare a dismisura il volume della batteria, dando una svolta rock al brano. Un pezzo, questo, al quale il lavoro in studio ha aggiunto tantissimo, perché la struttura iniziale sembra essere molto più classica. 

Bellissima la successiva "Darlin' hold on", lentissima e struggente, in cui Shelby Lynne si prende un' intera strofa e diventa la vera protagonista del brano. Va detto - comunque - che l'incontro tra le due voci è perfetto ed anzi per chi ha in mente la voce Jakob, quasi baritonale, questa scelta sembra essere l'uovo di Colombo. Bravissimo Butch Walker. 

Giano bifronte invece nelle impressioni su "Move the river". Nella strofa non mi piace il suono della chitarra, pieno di eco ma freddo ed impersonale; inoltre, non si capisce perchè un accompagnamento in levare su un brano che ha una chiara matrice rock. Molto interessante invece il ritornello, in cui si riconoscono gli Wallflowers di un disco come Breach.   

E' dunque questa la cifra di Exit Wounds, da un lato delle convincenti ballate elettro-acustiche, dall'altro dei mid-tempo in cui il suono ti avvolge con organi ed elettricità, senza mai pestare troppo sull'acceleratore. E se "Who's that man walkin' around my garden" mette insieme un ritornello un po' stupidino ed una chitarra sin troppo distorta (unico vero passo falso del disco), nel finale ci pensano le belle "I'll let you down (but wil not give you up)" e la conclusiva "The daylight between us", quest'ultima a riesumare il marchio di fabbrica, a concludere degnamente un bel disco. 

A conti fatti, un album al di sopra del suo predecessore, che certo lascia l'amaro in bocca perché degli Wallflowers dei tempi passati non c'è quasi più traccia, ma lascia ben sperare per una scrittura di Dylan asciutta come non mai. Adesso il difficile è capire cosa accadrà e se dovremo abituarci a band costruite ad arte da Jakob. Per ora, nell'anno in cui sono tornati anche i Counting Crows, è veramente tanta roba.  

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