Intervista a Seba Pezzani

Dopo la lettura di Profondo Sud. Un viaggio nella cultura del Dixie di Seba Pezzani ho avuto la fortuna di entrare in contatto con l'autore del libro. Lo ringrazio sin da subito per la disponibilità e l'entusiasmo con la quale ha accettato di rispondere ad alcune domande incentrate sulla cultura americana, e non solo. Buona lettura

D: Ciao Seba e grazie per avermi concesso questa intervista. Tu sei uno scrittore, giornalista ed anche musicista. Come si tengono insieme questi tre aspetti della tua personalità?

R: Presto detto. La prima passione è stata la musica. Sono stato, per così dire, folgorato sulla via di Liverpool a 13 anni e ho deciso che avrei voluto cantare la musica dei Beatles e di tutte le band e i cantanti che, grazie a loro, ho scoperto. Così, mi sono messo a studiare e praticare l’inglese per conto mio. Non ho mai fatto il musicista di professione, ma continuo a farlo per diletto. E credo che in ogni cantante e autore si annidi il desiderio di scrivere. Io l’ho sempre avuto e coltivato. Per me è un processo naturalissimo.

D: Sei un grande appassionato della cultura americana, come anche io del resto. Più continuo a scavare nell’America più la trovo enormemente diversa dalla nostra cultura. Secondo, perché questa differenza è così marcata?

Be’, la domanda richiederebbe un trattato, ma, per rispondere in sintesi, direi che la lontananza fisica e le dimensioni enormi del paese, oltre che gli influssi di molteplici etnie, lingue e culture, hanno quasi del tutto azzerato le caratteristiche originali di quegli influssi, in parte appiattendole e in parte omologandole all’interno di un universo culturale a parte, quello a stelle e strisce. Mi rendo conto che sia una banalità, ma credo sia pure la verità.

D: Prima con questo blog, poi con la band nella quale suono, sto esplorando la commistione tra la letteratura a stelle e strisce e la musica americana. Quanto è forte questo legame? Quanto deve la musica americana a scrittori come Kerouac o Hemingway?

Il legame è sicuramente forte, ma io non lo vedo tanto nella vicinanza a questo o a quello scrittore quanto nella volontà di esprimersi e di raccontare. In fondo, la tradizione del racconto orale è fortissima in America e l’apporto della canzone popolare alla cultura americana è enorme. La canzone popolare, sia nella comunità bianca (con l’esperienza, per esempio, del folk britannico e irlandese) che in quella afroamericana (con il blues), ha trasferito al mondo musicale la voglia di narrare. C’è tanta “letteratura” in quei testi e tanta “poesia” in quelle melodie. Poi è chiaro che grandi narratori come Kerouac e Hemingway, per fare due nomi, sono dei capostipiti di un nuovo modo di scrivere una storia e, inevitabilmente, qualche cantautore ne ha tratto ispirazione.

D: Leggere il tuo libro Profondo Sud. Un viaggio nella cultura del Dixie ha alzato ancora di più la mia voglia di visitare quelle terre. Devi sapere che sono stato in America diverse volte, ma sinora mi sono sempre tenuto a distanza da New Orleans e dintorni, in quanto temo che il richiamo di quella cultura e di quei paesaggi possa farmi decidere di restare lì! Cosa è accaduto in quella particolare zona del mondo perché divenisse la culla di un intero universo musicale e letterario?

Ti confesso che a New Orleans e in pochi altri posti presenti in quel mio libro io non sono mai stato. Nella maggior parte sì, ma non lì. Ma mi nutro da sempre di cultura popolare americana e New Orleans resta una delle città più affascinanti per via della sua posizione sul Golfo del Messico, sull’acqua – e sappiamo bene anche i disastri che ciò ha creato a ridosso delle foreste e degli acquitrini della Louisiana, nel Profondo Sud, con un occhio all’Europa per l’ubicazione privilegiata sul mare. Ma la cosa più unica di New Orleans è la sua cultura creola, figlia degli influssi di schiavi liberati provenienti da Antigua, con una commistione di inglese e francese, di riti sincretici solo in parte africani in quanto legati alla santeria caraibica. E in quella città, all’inizio del Novecento, si sono convogliate le migliori energie creative della musica americana, oltre che la voglia di trasgressione e il vizio.

D: La musica americana che tanto ci piace ha molte difficoltà ad essere apprezzata nel nostro paese, molto più che in altri paesi europei. Ti sei fatto una idea del perché?

Non sono del tutto d’accordo. Certo, in Italia ci sarà sempre una predilezione per la “canzone melodica”, espressione orrenda quasi quanto “musica leggera”, come se la melodia fosse nostra prerogativa esclusiva. L’Italia è un paese sempre più periferico, malgrado i giovani tendano a parlare la lingua inglese più dei loro genitori e nonni. Ma la musica nazionale ha presa un po’ ovunque, proprio per lo scoglio linguistico.

D: Ho letto il tuo articolo su Dylan pubblicato qualche giorno fa su “Il Giornale”. Qualche tempo fa riascoltavo Street Legal (1978) in cuffia e sono rimasto ancor più sorpreso dalle mille sfumature di suono e dall’assoluta contemporaneità di quei brani. Cosa ha reso Dylan così precursore dei tempi?

Tante cose. Sicuramente, soprattutto negli anni Sessanta, la sua capacità di cogliere il momento. Ancora imberbe, Dylan giunse a New York con una piccola sacca e una chitarra acustica per fare il folksinger nei locali del Village, in un periodo in cui il folk “tirava”. Poi, appena ha sentito tirare un’aria diversa, quella del R&R, attraverso i suoni rivoluzionari e l’immagine ancor più sconvolgente dei Beatles, ha capito che quella era la direzione che la musica avrebbe preso, ha indossato una giacca di pelle e occhiali scuri, ha imbracciato una Stratocaster e ci ha dato dentro, senza sapere bene dove sarebbe andato. Ma, almeno all’inizio, credo che sia stata una mossa istintiva: farsi accompagnare da una blues band elettrificata, continuando a suonare le sue cose. Ci ha messo poco a capire che la scelta era quella giusta e pure a “rinnegarla”, tornando ad atmosfere più intimistiche. Nel mezzo, c’è tutto il bagaglio musicale americano: folk, blues, R&B, R&R, country & western, swing.

D: Da musicista, uno degli obiettivi che mi sono dato è quello di ricreare la ricchezza del suono americano, di cui lo stesso Dylan è un esempio emblematico: chitarre che si mescolano a pianoforti, melodia, sezioni ritmiche poderose. Uno dei gruppi dai quali sono ossessionato sono i Counting Crows: esiste una contemporaneità per questa musica? Perché gli artisti americani sono irraggiungibili in questo genere?

Sono irraggiungibili perché quella musica è scritta nel loro DNA, è la quotidianità. Puoi cercare di suonarla come loro – e ci sono tanti anche da noi che lo fanno benissimo – ma è come parlare una lingua straniera: anche se la studi a lungo e ottieni risultati favolosi, non sarai mai un madrelingua. Per questo, nel mio piccolo, cerco di percorrere una mia via. Un tempo, volevo fare musica americana, quando suonavo la mia musica. Oggi voglio fare la mia musica, senza scordarmi che dall’altro lato dell’oceano ne giungono le suggestioni.

D: Tempo fa parlavo con un chitarrista italiano che è riuscito, con merito, ad entrare nella scena americana e mi ha detto che essere presi in considerazione dagli italiani in questa scena musicale è possibile solo quando smetti di pensare che sia un sogno, perché il sogno è autoassolutorio. Della serie che non bisogna essere autoindulgenti. Cosa ne pensi? L’artista è colui che spinge fino in fondo sul suo acceleratore, oppure deve comunque trovare il giusto compromesso?

Io non credo che esista una verità assoluta. Sono un relativista e penso che ognuno di noi abbia il diritto-dovere di fare quello che sente di fare, compreso inseguire un sogno.

D: Ultima domanda. Ti chiedo di consigliarci un libro, un album ed una canzone.

La valle dell’Eden – John Steinbeck

Revolver – The Beatles

Walk right back – The Everly Brothers

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