Ryan Adams - Easy Tiger

Parlare di Ryan Adams oggi non è facile. Nel Febbraio dello scorso anno il cantautore di Jacksonville - North Carolina proprio mentre stava per pubblicare il suo nuovo album, è salito alle cronache non per la sua musica ma per delle accuse, partite dalla ex moglie Mandy Moore e proseguite anche con altre donne, che lo vedono protagonista per aver procurato danni psicologici, abusando dalla propria popolarità. A seguito di questo scandalo, l'etichetta discografica ha bloccato la pubblicazione del nuovo lavoro ed Adams è praticamente scomparso dai social sino allo scorso Gennaio, quando ha ricominciato a postare frammenti di canzoni sparse, mostrandosi anche fortemente sovrappeso. 

Fatta la dovuta premessa, siamo qui per parlare di musica e non per occuparci di procedimenti giudiziari, anche perchè - siamo sinceri - se giudicassimo i rocker dalla fedina pedale navigheremmo in brutte acque. Dunque, parliamo di un disco che reputo lo zenit della discografia di Adams, Easy Tiger. Sono passati 13 anni dalla pubblicazione di questo lavoro, ma la qualità della scrittura, la passione dei testi e del cantato ed una cura al suono particolarmente riuscita fanno di Easy Tiger un disco imprenscindibile non solo per gli amanti del cantautore americano, ma soprattutto per gli appassionati di certo rock tipicamente d'Oltreoceano.  

Proveniente da quel Cold Roses - altra grande prova - con cui aveva sperimentato per la prima volta un chiaro approccio country/rock, Adams riunisce di nuovo quella macchina da guerra che risponde(va) al nome dei The Cardinals e ridimensiona il ruolo della slide guitar a favore della presenza stabile di organo e pianoforte, rispolverando il vecchio classico suono rock americano. Ma - soprattutto - alza il livello della scrittura, tornando a parlare in prima persona dei suoi demoni personali: amore, vita di tutti i giorni, incomunicabilità. Ed ecco che sforna un disco incredibilmente sincero e diretto, in cui le uniche armi sono una scrittura di alto livello in tutte le tracce ed il ritorno ad una forma canzone snella (molti brani non superano i tre minuti). 

Il quartetto in apertura stenderebbe qualsiasi cuore delicato. "Goodnight Rose" sembra provenire direttamente da una session in studio dei suoi compianti Whiskeytown, un po' ballad Dylaniana, un po' Counting Crows del periodo Hard Candy. Con la successiva "Two" la delicatezza della musica e la dolcezza delle parole sembrano fondersi in un equilibrio perfetto di malinconia e sentimento: 2 minuti e trentanove in cui a stento si trattengono le lacrime. Va ancora peggio - o meglio - per la successiva "Everybody Knows", altro quadretto bucolico in cui gli arpeggi del compianto Neal Casal - quanto ci manchi e che talento possedevi - doppiano la chitarra acustica di Ryan, provocando anche in questo caso brividi. Con "Helloweenhead" si torna ad un sano rock, molto diretto ed anche manicheo nella sua struttura, solo che la costruzione melodica è anche in questo caso vincente. 

Se questo basterebbe a giudicare positivamente l'intero lavoro, nascoste nelle restanti nove tracce Adams inserisce altrettante perle, come l'acustica "Oh my God, whatever, etc..." che diventerà uno dei suoi classici più amati, al pari della conclusiva "I taught myself how to grow old", mentre la struggente "The sun also set" ci avvolge di una malinconia della quale abbiamo bisogno (anche se non lo sapevamo)

Un disco indispensabile per chi è in astinenza di un certo talento cantautorale unito a del sano rock americano. 

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