Jonny Lang - Long time coming

Ogni tanto mi guardo indietro e rivolgo lo sguardo ad album che sono stati pubblicati, che ho anche apprezzato ma di cui non sono riuscito a scrivere. Capita, nonostante in giro ci siano fantomatici amanti della musica che recensiscono dieci dischi al mese, ascoltano tutto e pensano di essere capaci ad avere una idea su tutto. Diffidando molto di questa modalità tuttologo, vi dovete accontentare di recensioni non immediatamente successive alla pubblicazione del disco ed anche - direi fortunatamente - di album usciti qualche anno fa che però (a mio avviso) meritano una menzione particolare.

Fatta una premessa non richiesta ma sentita, ultimamente sto riascoltando con entusiasmo Long time coming di Jonny Lang, datato 2003 e terzo lavoro inedito del chitarrista cantante di Fargo, North Dakota. Il ragazzo venuto dal profondo nord statunitense, classe 1981, a soli 16 anni ha conosciuto il successo planetario con il fortunato - e bello - Lie to me, riproponendo nel successore Wander tis world la formula vincente di un pop-rock/blues ottimamente suonato, magistralmente cantato e di grande impatto, con assoli fulmicotone e grande attenzione alla melodia. 

Quel Jonny Lang, con tutto il talento che da sempre si porta appresso, muta pelle in Long Time Coming. Se sia stata la necessità di cambiare per dare maggiore aria alla propria proposta musicale oppure un reale infatuazione verso altre sonorità, del blues che faceva da sottofondo ai primi due fortunati lavoro resta poco se non un trasporto ed una ispirazione che fanno da leit-motiv nei 57 minuti del disco. Messo Ron Fair dietro alla console, fresco dei lavori con Counting Crows (Hard Candy), Christina Aguilera (Stripped) e The Black Eyed Peas (Where is the love?) ed accompagnato nella fase di scrittura dal fido Marthi Frederiksen, uno che ha firmato caterve di hit rock/blues con gli artist più disparati, Lang inizia l'avvicinamento a quello che è l'artista che ad oggi è a lui più assimilabile: Prince. Dotato il ragazzo di una voce sporca ed intensa e di un tocco magistrale alla chitarra, eccolo alle prese con un crossover di stili che rimandano direttamente alla nonchalance con la quale il fu genietto di Minneapolis ha costruito la sua fama. Certo, se Prince rimarrà per sopra diverse spanne sopra il ragazzo del North Dakota, è difficile non ritrovare la passione ed il talento del principe in brani come "Beautiful One" (che lo omaggia sin dal titolo), oppure in "Get what you give" che vive di un impulso dannatamente funk. 

Fatta la dovuta ballad acustica  - anche se la "Red Light" proposta dal vivo in versione elettrica diventerà uno dei suoi cavalli di battaglia - e mostrati i muscoli nell'opener "Give me up again", il disco risulta un incontro ben riuscito tra rock, blues, funk e soul, il tutto mescolato in una sonorità contemporanea molto diversa dai lavori precedenti e da una certa tensione di fondo, caratteristica che Lang ha mantenuto sino ad oggi. 

Ascoltato a 17 anni di distanza, un lavoro che oltre a mostrarci le doti indiscusse del ragazzo di Fargo ha contribuito a farlo uscire dalla rigidezza di un genere per utilizzare tutte le possibilità donategli dal proprio talento. Con la foto di Prince sul comodino. 

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