Alla fine degli idoli della mia gioventù rimarrà solo una
Spoon River. Non ero riuscito a comprendere appieno il vuoto che avrebbe
lasciato Kurt Cobain perché nonostante la grandezza di quei tre dischi non ero
riuscito a farmeli entrare sottopelle (cosa che avverrà cronologicamente più
tardi di quel maledetto Aprile). Di Staley invece rimasi veramente colpito. Ci
ha lasciati con una fotografia triste, da solo, lontano da tutti. Addirittura
il suo corpo ritrovato due settimane dopo la morte nella vasca da bagno, quasi
a dire che a nessuno importasse di lui, nessuno lo cercava. Era Layne Staley, qualsiasi canzone
degli Alice in Chains o dei Mad Season decidiate di ascoltare, il suo talento
si insinuerà nelle orecchie lasciandovi sbalorditi. E tristi.
Quello che mi ha fatto più male è stato Scott. Sapete com’è,
ognuno nella vita ha un ideale di voce, di timbro musicale. Lui era il mio
ideale, la mia perfezione. Inoltre scriveva testi con un' assonanza musicale
perfetta, difficile da sovrapporli con quella maestria a dei riff netti come
quelli dei fratelli DeLeo.
Adesso inspiegabilmente tocca a Chris Cornell, in un modo
ancora più doloroso degli altri. Perché nell’ultimo Cornell non traspariva il
male di vivere, sembrava lasciato alle spalle. Tutto andava meglio: il tour dei
Soundgarden era sold-out, gli Audioslave sembravano tornati in carreggiata e l’ultimo
disco solista era finalmente convincente. Perché l’hai fatto, Chris? E’ da
quando ho appreso la notizia che mi gira in testa questa domanda. Perché?
Nessuno ne conosce la risposta e mi viene il lacerante
dubbio che nessuno di noi mai la saprà perché in primis le persone a lui più
vicine sono rimaste esterrefatte. E sinceramente io non sono nessuno per
trovare una risposta.
A me resta un grande vuoto, il vuoto che prova chi si è
musicalmente (ma non solo, anche ideologicamente) formato alla scuola anni ’90 di
Seattle. Il “buco nero” (inevitabile) che sente chi a Seattle c’è voluto
andare, per respirare quell’aria, per carpirne il significato più recondito e
nascosto. Era il 2008 ed i Soundgarden erano ancora ufficialmente sciolti, i
Pearl Jam nel guado del passaggio da grunge band ad arena-rock band, Layne
Stayley morto da sei anni, Kurt da 14, gli Screaming Trees senza un disco da
diversi anni, i Mudhoney dispersi. Ironia della sorte, mi vidi un concerto dei
miei idoli Stone Temple Pilots sotto lo Space Needle: sembravano essere gli
unici vivi, loro Californiani doc.
Eppure si sentiva nell’aria qualcosa. Per due settimane ho
vissuto in solitudine in una grande casa in un quartiere chiamato “Ravenna”
(pensa tu…). Il mio compito era portare a spasso il cane e fare in modo che la
casa non crollasse mentre i proprietari erano in vacanza all’estero. Compito
perfettamente riuscito. Un giorno andai alla ricerca del negozio di dischi dal
quale è iniziato tutto, un piccolo locale davanti al Pike Place Market, al
porto. Era lì che Stone Gossard e Mike McCready (Pearl Jam) e Chris Cornell
e Kim Thayil (Soundgarden) andavano a comprare i dischi, anche quando la loro
fama era alle stelle. Comprai un disco dei Tad, loro più grunge del grunge.
Qualche sera dopo entrai in una birreria, che faceva sfoggio di alcuni poster che
ritraevano i primi live proprio dei Soundgarden.
Suona strano dirlo, ma Seattle mi è parsa, tra tutti, fiera soprattutto dei Soundgarden. Forse è una impressione, ma tutti quelli con i
quali parlavo mi nominavano Cornell come un figlio della Emerald City, un
vanto. I Pearl Jam al timone hanno Vedder, che viene dalla California. Gli
Alice hanno avuto una storia maledetta ed insieme a Kurt hanno dato di Seattle
una immagine troppo nichilista: lo sparo di Cobain ancora oggi alimenta orme di
turisti adolescenti che si fanno filmare davanti quella casa. Per Seattle è una
storia da far dimenticare ed il successo dei Nirvana ed il loro testamento fa
parte della storia della musica, e la storia va oltre una città.
Seattle invece si vanta dei Soundgarden, che tra l’altro
prendono il nome da un piccolo giardino in centro città nella quale ci sono
delle installazioni che, quando vengono agitate dal vento, producono delle melodie.
L’hanno scritto in tanti, non devo di certo dirlo io che i
Soundgarden erano un miscuglio di Zeppelin e Black Sabbath, di punk-heavy metal
e psichedelia. Dunque per quanto mi riguarda non assomigliano a nessuno.
Prendete le due opere sublimi per eccellenza: Badmotorfinger e Superunknown;
hanno dei padri, certamente, ma non hanno similitudini con altri album: sono i
Soundgarden. Punto.
E allora, rimuginando nella notte tra i pensieri, mi è
venuto in mente che questa Spoon River rappresenta simbolicamente anche la
morte degli ultimi simboli dell’industria discografica, oggi che i negozi di
dischi non esistono più, i rapper patinati occupano le copertine delle riviste
musicali e dobbiamo penare per trovare una rock band nata negli ultimi anni che
possa rinvigorire la nostra voglia di chitarre al vento ed assoli. Cosa c’entrava
Chris Cornell con tutto questo? Ve lo dico io: niente. Lui che ha formato in
due giorni i Temple of the Dog e che in una settimana ha registrato un disco
epocale fa parte di un’altra storia, di un altro mondo.
Il problema è che siamo sempre più soli e dobbiamo
combattere con l’idea che non ci sono più i Nirvana, gli Alice in Chains ed i
Soundgardern, che gli Stone Temple Pilots stanno disperatamente cercando un
nuovo cantante (ridicoli, cambiate nome) e che i Pearl Jam proprio quest’anno
sono stati inseriti nella Rock’n’roll Hall of Fame, roba da Aerosmith, non da
gente di Seattle.
Ed è forse per questo che stanotte lo Space Needle è rimasto
spento. Per celebrare il figlio prediletto della città di smeraldo.
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