Jonny Lang - Signs

Jonny Lang ci aveva lasciato quattro anni fa con Fight for my soul, un album in cui si cimentava, con ottimi risultati, in un soul/rock molto moderno. Un disco, questo, che gli ha portato fortuna, avendolo sdoganato anche nell’airplay radiofonico, togliendolo dalle radio tematiche di rock/blues. Dopo quattro anni lo ritroviamo in forma smagliante e, soprattutto, ritornato al blues/rock, suo amore iniziale e francamente il genere in cui riesce ad eccellere.

Esattamente 20 anni fa infatti il ragazzo di Fargo (allora quindicenne) si presentava al mondo con la sua miscela esplosiva di assoli al fulmicotone e voce rotta dal whiskey che non aveva ancora bevuto. Una folgorazione. Con gli album successivi è andato ad esplorare altri emisferi, il già citato soul ma anche il rock più mainstream, dimostrandosi a suo agio anche al di fuori del suo amore adolescenziale. D’altronde Lang possiede tutte le carte in regola per vincere a mani basse anche nel cantare l’elenco telefonico: una voce da nero dell’Alabama, possente ma con sfumature di dolcezza estrema, un talento invidiabile con la sei corde (soprattutto mai scontato, sempre particolare). A tutto questo negli anni il buon Jonny ha unito una scrittura mai banale, anche se chiaramente “drogata” da quell’ugola e quelle mani.

Signs è la summa di tutto questo nonché, come detto, il tanto sospirato ritorno al rock/blues. Intendiamoci, la proposta di Lang è distante dai suoi pari età Kenny Wayne Shepherd o Joe Bonamassa, più muscolosi ed anche più prevedibili. Lui invece propone un set di 11 canzoni ben miscelate ed anche distanti tra loro. Da una parte infatti c’è la vena del bluesman sofferto, che chitarra acustica e voce (ma che voce…) apre il disco con il fango blues di “Make it move” e lo chiude con l’orchestrazione elegante (ma ugualmente sofferente) di “Singing song”. Dall’altra c’è il bluesman adrenalinico che da quell’esordio di 20 anni non abbiamo più incontrato. E dunque ecco l’hard rock di “Last man standing” (veramente incazzata) e la Led Zeppeliana  “Snakes”, così come il rock più zuccherato di “Into the light”, nel quale comunque Lang mostra i muscoli.

Nonostante dunque sia ritornato ad una formula conosciuta, sia nella proposta musicale che nella struttura compositiva dei brani, l’elemento prevedibilità non è contemplato. Il suo stesso suono di chitarra ci lascia spiazzati, essendo senza compromessi, bagnato forse dalle distorsioni provocate da un vecchio amplificatore valvolare registrato oltre qualsiasi volume consentito. Come direbbero i critici più esperti, Signs è il disco della maturità, l’album nel quale le diverse esperienze precedenti vengono messe a fuoco. Ma è anche il lavoro in cui Lang si mette più a nudo, con interpretazioni chitarra e voce in cui, per essere chiari, se non ne hai non puoi inventarti nulla. E lui ne ha. 

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