Pearl Jam - Gigaton

Chiariamo innanzitutto alcuni aspetti terminologici. Recensire vuol dire "esaminare e valutare criticamente un'opera di recente produzione", così parlò il vocabolario della lingua italiana. Supportato quindi da questa definizione, ammetto sin d'ora che, parlando dei Pearl Jam, il significato di valutazione critica potrebbe non essere rispettato. Chi scrive ha avuto la folgorazione musicale più grande della sua vita ascoltando Ten, ed è difficile oggi a quasi 28 anni da quell'ascolto essere distaccati. Anche perchè dopo Ten non sono venuti dischi mediocri, basti citare il duetto Vs./Vitalogy, l'ammiccamento younghiano di No Code, il classic rock di Yield. 

Dopo Yield, concordo con i tanti che lo hanno scritto in questi anni, il livello si è abbassato. Non c'è niente di male a scriverlo, fa parte della vita e soprattutto dell'arte, anche se il livello compositivo non è mai arrivato sotto la soglia di una sufficienza più che piena. E' chiaro che ognuno troverà anche in album che non possono vantare la stessa scrittura del terzetto killer iniziale le sue gemme, ed io non faccio eccezione. "Light years" da Binaural, "Can't keep" da Riot Act, "Come back" dal disco omonimo del 2006. Gli ultimi due in ordine temporale, Backspacer e Lightning Bolt sono sicuramente quelli più prevedibili, ma anche lì trovare brani sopra la media di tante altre band in circolazione non è poi così difficile (chi ha detto "Amongst the waves"?). 

Quasi sette anni fa chiudevo in questo modo la recensione di Lightning Bolt "Non c'è gloria alcuna in Lightning Bolt, perchè i Pearl Jam stanno probabilmente sbagliando la strada. Non si addice loro l'icona di classic rock band che sembrano aver scelto. La via giusta era in No Code e Riot Act, due album senza schemi ma con tante idee, a volte anche non messe a fuoco, ma che poi diventavano luce piena grazie al talento dei cinque di Seattle." (qui la recensione completa https://bluespaper.blogspot.com/2013/10/lightning-bolt-pearl-jam.html)

Di tempo ne è passato molto ed addirittura in questi anni ho creduto che sarebbe stato difficile riascoltare un nuovo lavoro dei cinque di Seattle. Stavano per diventare una band da vedere dal vivo, col rischio di essere i nuovi Rolling Stones (qualcuno si ricorda i dischi degli Stones degli ultimi 40 anni?). Invece, quell'auspicio con il quale concludevo la precedente recensione ora è realtà. Col suo essere sghembo, qualche volta anche dando l'idea di aver costruito come un edificio della Lego le canzoni, unendo qua e là spezzoni di idee, Gigaton è finalmente un disco dei Pearl Jam del nuovo millennio, a metà strada tra un Riot Act molto più morbido e l'omonimo di quattordici anni fa. 

L'apertura lasciata a "Who ever said" in questo mette subito in chiaro le regole del gioco. C'è distorsione, c'è elettricità, c'è nervosismo. C'è una strofa iniziale che non tornerà più in tutta la canzone, c'è un botta e risposta negli assoli tra Gossard (?) e McCready, c'è un bridge lunghissimo inserito a metà brano. Spiazza, eppure sotto pelle piace al primo ascolto.

Ancora di più senza una struttura precisa la già ascoltata "Superblood Wolfmoon": qual'è la strofa e qual'è il ritornello? Lo stesso Josh Evans, produttore del disco, raccontando alcuni aneddoti sulle registrazioni ha ammesso che ad un certo punto quello che lui chiamava ritornello per Vedder era la strofa, e così hanno tagliato accordandosi che non c'era nè l'uno n'è l'altro. Fatto sta che il pezzo tira dannatamente tanto, grazie soprattutto ad un Cameron in vena e ad un assolo di McCready che fa girare la testa: mai sentito così shredder in ormai quasi trent'anni di carriera. 

Ed ecco che arriva "Dance of the Clairvoyants". Ebbene sì, io sono uno di quelli che, dopo i primi ascolti, gridavano alla profanazione. Cosa c'entrano quelle tastiere così anni Ottanta, perchè questo mix tra drum machine e vera batteria? Però poi, ascolto dopo ascolto, è cresciuta. Piace il funk di McCready, piace il testo drammaticamente contemporaneo di Vedder, esalta il modo in cui gioca con le stratificazioni della voce. Ed alla fine, dopo un bel po' di ascolti, "Dance..." diventa forse una delle più belle canzoni dei PJ ad essere state pubblicate dopo Yield e soprattutto è il primo vero brivido di Gigaton. 

A chiusura del poker iniziale la bella "Quick escape", diretta e tesa, scritta da Ament che infatti quasi da solo con un ottimo giro di basso la sostiene dall'inizio alla fine. Probabilmente già sapete che Vedder paga tributo, nel testo, a Freddy Mercury, anche se il brano niente ha a che vedere con la sonorità dei Queen. E' semmai un pezzo grunge degli anni 2020 mentre McCready assesta uno dei suoi assoli periodo "vs".

Da qui in poi qualche caduta di tono, ma anche forse le due canzoni più emotivamente convincenti del lotto. Se "Alright" scorre via noiosetta - ma non aveva grandi pretese in partenza - "Seven O'Clock" è ciò che auspicavo da tempo per i Pearl Jam: la ballad elettro-acustica di chiara ispirazione Springstiana. E' una canzone che viaggia col pilota automatico, registrata - parole del produttore - in una session ininterrotta. Il crescendo nel finale è innodico ed è il secondo brivido del disco, stavolta forse più atteso perchè legato a ciò che dai PJ ti vorresti aspettare: due chitarre ed una voce che costruisce melodie. Ottima.

Meno focalizzata "Never Destination", una delle canzoni uscite dalla penna solitaria di Vedder. Io non amo particolarmente la scrittura di Eddie, anche perchè da almeno 5 dischi ci propina una versione moderna ma monotona degli Who: tanta ritmica di sottofondo, qualche cambio di tonalità ma il risultato è fiacco, proprio come "Never Destination".

Va molto meglio con "Take the long way", firmata Cameron, pezzone che sicuramente avrebbe fatto parte di un disco dei Soundgarden ma che convince in questa versione PJ, con McCready sugli scudi ed anche Vedder ottimamente inserito. Sembrano tornati i tempi di Riot Act ma soprattutto ha il pregio di tenere alto il ritmo con soluzioni non banali. Ascolto dopo ascolto cresce.

Se "Buckle up" è abbastanza incomprensibile nel suo incedere claudicante - Gossard, che mi combini ultimamente? - si arriva al trittico finale. Lo dico subito, faccio difficoltà ad emozionarmi per "Come then goes", chitarra acustica e voce come spesso Vedder ci ha proposto negli ultimi venti anni. Forse sono saturo io di questa proposta; come sempre la bellezza di quella voce farebbe brillare di luce propria l'asfalto di una grigia città, ma stavolta la digerisco con difficoltà.

Mi esprimo nettamente, al contrario, su "Retrograde", scritta da McCready e come tutte le opere firmate da Mike con forte contenuto innodico: al quinto giorno consecutivo di ascolto è quella che maggiormente fa vibrare le corde della mia anima. Anch'essa una ballad a metà tra acustico ed elettrico con una crescita esponenziale nel ritornello e nel finale, con una conclusione che non sfigurerebbe in un disco dei Counting Crows. Te lo aspetti da loro, ma non dai Pearl Jam di Lightning Bolt.

La conclusione del disco è altissima, sfiora l'area rarefatta dei capolavori ed è un'esperienza forte ascoltarla in questi giorni di sofferenza. "River cross", pump organ e voce, basso di Ament a fare da contrappunto, è la nuova "Indifference", sofferta ed elegiaca. Quando pensi, in tanti anni di musica e di rock, di aver sottoposto la tua anima a tanti scossoni, questa ribalta tutto. Ascoltatela, è la dimostrazione del talento di Vedder, che è immenso soprattutto quando esce dal clichè del chitarrista cantante.

Si conclude così un disco lungo, ben prodotto e con un livello compositivo finalmente tornato a fasti precedenti. Stavolta abbiamo materiale per emozionarci per un bel po' di tempo e poco importa se non tutto è a fuoco. Siamo sinceri, ma negli ultimi anni di dischi così quanti ne abbiamo ascoltati?


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