Robert Plant - Carry Fire

Un disco di Robert Plant non dovrebbe essere oggetto di recensione nel presente blog, in quanto l'artista in questione (e che artista!) è inglese. Ma se è vero che il buon vecchio Robert è figlio della Terra di Albione, è altrettanto vero che la sua musica ormai è pienamente nei binari della classicità americana. Negli ultimi anni infatti la grande voce dei Led Zeppelin si è cimentata con l'approfondimento della musica folk (senza dimenticare le parole country e blues). Sono nati così capolavori come Raising Sand (2007) in compagnia della meravigliosa ugola di Alison Kraus, e poi ancora Band of Joy (2010) e lullaby and...The ceaseless roar (2014), disco che precede quel Carry Fire che mi appresto a recensire, lo dico subito, con entusiasmo.

Intanto Robert Plant è un artista al quale andrebbe riconosciuto merito anche solo per non aver mai cercato, dopo lo scioglimento dei Led Zeppelin, la via facile delle classifiche di vendita: insomma, un disco di rock puro nel quale Plant scimmiotta l'eredità degli Zeppelin non c'è mai stato, differentemente da quanto ha fatto l'ex sodale Page. Non contento di ciò, lo stesso Plant ha sempre cercato di spingersi in profondità nella musica proposta, dando alle stampe album non semplici, a volte spiazzanti per i fan del Dirigibile, ma di certo con un grande ed attento lavoro di scrittura e di suoni.

Inizio proprio dalla parola "suono" a parlare di Carry Fire, perchè è il primo vero aspetto che mi ha colpito. Stavolta il folk non c'è ed anzi il leit motif del disco potrebbe essere il ritorno di Plant a delle sonorità proto-rock. Ma è il sound del disco che mi ha particolarmente colpito, un tripudio di suoni ovattati, la voce volutamente bassa, quasi baritonale, le chitarre ugualmente graffianti ma quasi suonate nella stanza accanto. Con le dovute differenze, la prima impressione è stata quella di aver rimesso nel lettore un nuovo No Code dei Pearl Jam. Ed infatti il disco suona grezzo e vero, e la voce di Plant, nonostante faccia di tutto per non essere in primo piano, è invecchiata come un whisky puro ed artigianale, profumato ancora prima di essere versato nel bicchiere. E' così che resto ammaliato dall'antemica "Blurbirds over the mountain" o dall'acustica "The May Queen". Ed è un piacere, inutile negarlo, scoprire la melodia nascosta dietro le chitarre di "New World", perchè senza alzare nemmeno la voce, il suo timbro riempie le casse.

Non bastasse la voce, non bastassero i suoni, la scrittura non ha limiti ed i generi si mescolano senza una bussola precisa. Ad esempio, "Dance with you tonight" verrebbe da farla ascoltare agli U2 odierni, per fargli comprendere che esisteva un'altra via, meno remunerativa ma più di classe. E poi il ritmo di "Bones of Saints", quasi un rock'n'roll filtrato.

Classe, classe, classe. Probabilmente il disco più bello del 2017. 

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