Cormac McCarthy. Suttree

In tempi di caccia ai migranti, la lettura di un romanzo complesso e difficile quale è Suttree andrebbe consigliata solo a chi non si ferma all’apparenza delle cose, perché sono gli unici a poter comprendere che, dietro questa storia di emarginazione, bassifondi ed espedienti c’è la volontà di Cormac McCarthy di farci amare colui che, volutamente, vive ai margini della società. Il reietto per libera scelta, il barbone che rifugge qualsiasi cambio di status sociale, il detenuto che torna a delinquere sono da sempre disegnati come i mali da estirpare nella nostra società. Il senzatetto che ha perso in un giorno tutti i suoi averi per mano esterna è da compatire, ma colui che ha scelto di vivere ai margini? In questa domanda risiede l’essenza del romanzo di McCarthy, che per una volta si allontana dal filone a lui caro (e che tanta fortuna gli ha portato) del western pulp per indossare i panni dello scrittore di prosa inglese Ottocentesca e raccontarci una storia controversa, a tratti nebulosa e nauseante.

Le prime duecento pagine sono impervie, volutamente intricate e senza una bussola precisa. Nomi di luoghi e persone si riconcorrono, l’unica certezza è la figura centrale di Cornelius “Buddy” Suttree, il protagonista del romanzo, un signore che ha oltrepassato la cinquantina e vive su una barca sul fiume, guadagnandosi i piccoli spiccioli giornalieri che gli servono per vivere attraverso la vendita del pescato giornaliero, in particolare il pesce-gatto. Ma se il tempo dedicato alla pesca prende solo qualche istanza della giornata, giusto per tirare su le reti gettate nella notte e liberarne i pesci, il resto dell’esistenza di Suttree si dipana tra sbornie al bar con il giro di anime perse cittadine, entrata ed uscita dalla prigione per piccoli crimini e cercare di risolvere le grane che un personaggio dei bassifondi attira come colla vinilica.

La scrittura, dicevamo. Una scrittura intrisa di una terminologia classica, spezzettata e volutamente piena di ostacoli, quasi a voler far recedere il lettore dalla volontà di proseguire nella lettura del romanzo, una prova di forza di McCarthy che spiazza, laddove lo conoscevamo con una prosa scorrevole ed attraente (che in Non è un paese per vecchi  ha raggiunto lo zenit). Da pagina duecento McCarthy lascia entrare il lettore, svolge finalmente il ruolo di narratore, approfondendo tra l’altro la figura di Gene Harrogate, ragazzo con un probabile ritardo psichiatrico che diventerà nel corso del romanzo una figura non solo di contorno ma necessaria al racconto; fossimo alla notte degli Oscar, al tragicomico Harrogate spetterebbe di diritto la statuetta per il ruolo del miglior attore non protagonista.

La figura del protagonista invece si delinea lentamente, attraversi capitoli che in realtà sono racconti, episodi di vita cronologicamente slegati, flashback che richiedono al lettore l’impegno di essere ricondotti in un filo logico. Eppure c’è un filo invisibile che lega chi legge a queste pagine, una specie di perseverante desiderio di non mollare e saperne ancora di più, una strana folle immedesimazione in un personaggio perdente per volontà ma anche per destino, due cose che quando combaciano rendono la vita dolcemente bella o tristemente drammatica. Il tutto a Knoxville, Tennesse nel 1952.


Suttree allora diventa un altro dei grandi romanzi americani, paragonabile al Teatro di Sabbath di Philip Roth, un altro romanzo in cui un perdente sfida il lettore a comprendere le sue incomprensibili verità, letture complesse che ci chiedono di metterci in gioco, letteratura per palati forti. Il McCarthy che non avreste mai pensato di leggere. 

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