Jason Isbell & the 400 Unit - The Nashville Sound

La nascita della dedizione nei confronti di un artista può avere diverse genesi. Posso dire senza alcun dubbio ormai di essere un fan di Jason Isbell esattamente da quando Southeastern, il suo precedente lavoro, ha iniziato incessantemente a girare nel lettore della mia auto. Quell'album era uscito nel 2013, ma ci misi un anno a scovarlo ed una intera estate, quella del 2014, per portarlo a memoria. Avevo iniziato a venerare talmente tanto quel disco che mi era pure presa l'idea di crearmi uno pseudonimo e girare per qualche locale proponendo un set acustico, chitarra e voce,  non solo di gemme di Isbell, ma rispolverando anche brani che adoro del repertorio di Grant Lee Phillips. Insomma, anche per motivazioni personali, Southeastern è parte integrante della colonna sonora della mia vita.

Così, quando ha iniziato a trapelare la notizia di un nuovo album, la mia trepidazione è stata incontenibile, così come l'attesa. E questo The Nashville Sound non tradisce le aspettative, anche se, è bene dirlo sin da subito, non regge il confronto con Southeastern (ci  sarebbe anche un disco in mezzo, Something more than free del 2015, che invero non mi ha fatto impazzire).

Per questa nuova fatica Isbell rispolvera i 400 Unit, band che già lo aveva supportato per il disco omonimo del 2009, lavoro che tra l'altro è veramente convincente sia dal punto di vista della struttura che del suono. Ed Isbell riparte proprio da lì, da quel disco che ha un retroterra rock e che getta le basi per The Nashville Sound che dal suo predecessore prende non tanto la scrittura (Isbell è maturato ed ora viaggia su altre vette) ma la filosofia di fondo.

Il nuovo album propone una miscela di brani, alcuni dei quali figli di Southeastern e caratterizzati da una nostalgia di fondo esaltata dalla voce di Isbell, sempre più intensa e bella con il passare degli anni, e dalla dolcezza di arrangiamenti minimali. Gli altri brani però aprono le porte ad un suono più stratificato, complice il lavoro dei 400 Unit il cui compito è ingrossare il suono e dare nuova linfa alle composizioni di Isbell. Certo, il giudizio sui nuovi brani risente fortemente del talento del ragazzo dell'Alabama per le ballad, così che "Last of my kind" e soprattutto "Tupelo" sono una spanna sopra le altre; ma a ben vedere anche in queste proposte acustiche il suono è cambiato, con l'aggiunta di una batteria sempre ben suonata, la chitarra di Sadler Vaden (chi bazzica un po' questo blog sa che il ragazzo è tra i miei preferiti) che allarga gli spazi ed una sempre più perfetta Amanda Shires nel ruolo di violista e cantante (nonché di moglie).

La svolta rock di cui tanto ho letto dunque rimane iscritta ad alcuni episodi, come "Cumberland Gap" oppure "Hope the high road", che però dietro ad una muscolare registrazione celano un'anima acustica. Insomma, in queste canzoni non c'è traccia del vecchio Isbell leader dei Drive by Truckers, semmai c'è un po' del bucolico Neil Young di Harvest, un disco che aleggia tra le tracce di The Nashville Sound.

Probabilmente il punto più alto dell'album sta però in "Anxiety", un flusso di coscienza sul tema dell'ansia in cui, ad un Isbell che si confessa di fronte alla crudezza della vita, fanno da contraltare i 400 Unit che arrangiano i suoni come una orchestra moderna, mai sopra le righe e sempre più attenti al risultato più che alla patina. In conclusione, Isbell non riesce (ci mancherebbe) a riproporsi nella grandezza sofferta di Southeastern, ma da alle stampe un disco che, come il predecessore, propone canzoni sincere ed emozionanti che, ascolto dopo ascolto, ne dimostrano l'importanza nel panorama della musica americana. Però non chiamatela svolta rock.

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