Volevamo essere gli U2 (capitolo 2)

Scelto il nome, avremmo dovuto anche indirizzarci verso un genere musicale. Avremmo, appunto, perché essendo alle prime (anzi, primissime) armi, dovevamo imparare a suonare insieme ed alcuni di noi dovevano proprio imparare a suonare il loro strumento. Insomma, la chitarra elettrica non è la chitarra acustica, così come c’è differenza tra tenere il tempo con la batteria sopra un disco e dare il tempo ad una band, senza alcun aiuto. Quel settembre passò dunque con tanti problemi da risolvere e la scelta del repertorio sembrava essere l’ultimo in ordine di importanza. In un pomeriggio rubato allo studio (ce ne sarebbero stati mille altri…) decidemmo di riempire le bottiglie di miscela, portare su gli strumenti ed iniziare. Era Ottobre, eppure faceva già un gran freddo. Ognuno arrivò alla “Casetta” (d’ora in poi, questo sarà il nome ufficiale) con i propri mezzi. E quindi: 3 motorini, 2 a piedi ed….1 passaggio da un genitore (poco rock, poco poco rock…). Riempimmo il gruppo elettrogeno di miscela, lo portammo in mezzo al campo e lo accendemmo. Constatando, con grande frustrazione, che non funzionava niente. O meglio, qualcosa si accendeva, gracchiava e faceva un rumore di fondo strano.

Avevamo evidentemente collegato gli amplificatori in maniera troppo avventurosa: c’era il bisogno di procurarsi nuove prese e tante prolunghe. Dulcis in fundo, iniziò a piovere. Messo al riparo il gruppo elettrogeno (impossibile da far funzionare sotto la pioggia), chiudemmo la Casetta e tornammo in città. Precisamente nella mia camera. Stipati la dentro in sei, con 2 chitarre acustiche ed una tastiera (amplificata dai suoi altoparlanti) provammo a tirarci giù ad orecchio un grande classico: “Wish you were here” dei Pink Floyd. Qualcosa, magicamente, funzionò. Eravamo in tre e gli altri ci guardavano, ma la soddisfazione sul volto di tutti era evidente.

Sto raccontando questa storia principalmente per riassaporare quei momenti indelebili. E lo faccio col groppone sulla gola e le lacrime agli occhi. E’ la storia di una nascita, è la storia della vita che trova un senso. Ricordando quei momenti sembra di essere lì adesso, che nulla sia cambiato: abbiamo ancora sedici anni, la barba sta spuntando in maniera selvaggia, non c’è un taglio di capelli decente e soprattutto siamo vestiti ancora senza un senso. Ma l’euforia…quella euforia non me la ridarà nessuno. Quel momento in cui le mani fanno il riff ed inizio a cantare “So….” E tutti gli altri mi guardano. Pochi mesi prima stavamo progettando una cosa impossibile, impensabile. Ora, con tanta forza di volontà, i Blue Light sono qui. Quella mia camera è ancora lì, ovviamente a casa dei miei genitori. Ci dormo con mia moglie e mio figlio quando torno nella mia città natale. Odora ancora di quei sei ragazzi. Nella libreria di fronte a quello che adesso è un divano letto matrimoniale ci sono ancora i cd che avevo comprato in quel periodo: la raccolta “Money for nothing” dei Dire Straits, “Full moon…dirty hearts” degli INXS e tante, tante musicassette di album storici. Nel cassetto della scrivania qualche mese fa è uscito fuori “The piper at the gates of dawn”, il primo album in studio dei Pink Floyd, a quel tempo con Syd Barrett. E’ il momento in cui getti le basi della tua musica quello nel quale ti vai ad ascoltare tutti i dischi che hanno fatto la storia. Non importa se non sarai capace, in quel momento, di suonarlo: la tua formazione parte da lì. Gli INXS, veramente, non li ho più ascoltati. E sono convinto che l’ultima volta che ho messo su quel cd erano almeno 30 anni fa (!). Però se dovessi riascoltarlo partirebbe una magia, quella di un ragazzo che sente scoppiare il cervello dalla bellezza. La bellezza del rock.

Dovevamo dunque investire nel migliorare la dotazione minima di quella sala prove.


(continua…)

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