Volevamo essere gli U2 (capitolo 1)

Questa storia è datata oltre 20 anni fa, 21 per l’esattezza. Ed è vera, totalmente vera ed autentica.
Questa è la storia di sei ragazzi che, tutti intorno ai 16 anni di età, hanno deciso di fondare una rock band.
Correva l’anno 1995, i mitici anni ’90. Si, mitici e grandiosi perché quella società si stava costruendo su valori cui noi giovani liceali credevamo in maniera forte; l’Europa era una opportunità e tutti sognavamo l’Università ed il conseguente Erasmus. Il Muro di Berlino era caduto ormai da qualche anno, lasciando spazio alla costruzione delle nuove democrazie dell’Est (talmente traballanti che sarebbero cresciute con disequilibri evidenti). Il Presidente degli Stati Uniti era un suonatore di sax che, mancando del necessario talento (Clinton lo ha sempre sventagliato senza problemi) aveva optato per la carriera politica. In aggiunta a ciò, si trovava pure incriminato per aver avuto rapporti sessuali con una stagista, il che rafforzava la sua immagine di uomo più attento ai vizi della vita (ed alla necessità di viverla nella sua globalità) piuttosto che a fare guerre in giro per il mondo. C’era pure, se vogliamo dirla tutta, una economia che tirava come un Boing alla massima velocità. Me la ricordo l’Italia degli anni novanta: vacanze di tre settimane d’estate e settimana bianca per molte famiglie, auto nuove a go-go, oltre al pc in tutte le case ed all’arrivo della più grande scoperta dell’era moderna: Internet.
Potreste dire, ed io non vi biasimerò, che il quadro ha delle tinte troppo sentimentali, perché i problemi c’erano eccome. Non vi do torto, ma al tempo del liceo certo simbolismo valeva più di ogni altra cosa. O forse, quella mia generazione che si stava formando sui libri aveva tante idee e stava crescendo con una idea di democrazia, libertà e rispetto che ci entusiasmava. E poi, la parola “globalizzazione” aveva tutta un’altra declinazione.

Nella Provincia Marchigiana insomma questi sei ragazzi vivevano l’euforia collettiva dei 16 anni mescolata ad una vita piena di belle promesse davanti e soprattutto con una fissazione in testa: la musica. Erano anni seri per la musica quelli, in particolare per il rock. Nei nostri lettori cd portatili risuonavano i Pearl Jam, gli U2 con Achtung Baby, i R.E.M. che davano alle stampe Monster e poi tornavano agli albori con New Adventures in Hi-Fi, la deflagrante potenza dei Rage Against the Machine, la dolcezza oscura dei Cure sul viale del tramonto (ma Wish resta un grande disco e “Friday i’m in love” una grande canzone). Erano anni di ballad: “Creep” dei Radiohead e “Wonderwall” degli Oasis dalla terra d’Albione, “Stay” degli U2, “Tonight tonight” degli Smashing Pumpkins, e poi ancora “Ode to my family” dei Cranberries, “Round here” dei Counting Crows. Erano gli anni del rock italiano che usciva dai garage e non aveva paura a far ringhiare le chitarre ed a dichiarare le proprie influenze straniere: Negrita, Timoria e Marlene Kuntz sono i primi nomi che mi vengono in mente, cose passate di mano in mano all’inizio con le musicassette.

Noi eravamo sei ragazzi di cui quattro tutti nella stessa classe di Liceo, e due che facevano parte del nostro stesso giro. Nell’estate del 1995 avevamo i nostri gusti musicali in subbuglio, le antenne aperte a captare qualsiasi novità e la fortuna di avere 16/17 anni in un momento in cui il rock sembrava essere infuocato dallo spirito degli anni settanta. In una sera di Giugno, non troppo calda a dire il vero, passeggiando senza una meta precisa ci venne un’idea, l’idea che ancora oggi penso sia la più rivoluzionaria, a qualsiasi età: mettere su una band. Forse era banale, forse era scontato, forse era inevitabile, ma la decisione non ha avuto nemmeno una esitazione da parte di ognuno: si doveva fare, è stato fatto.

La situazione il giorno dopo la grande decisione era più o meno questa: il futuro batterista non aveva una batteria e, a dire il vero, non l’aveva nemmeno mai suonata; il futuro bassista suonava clarinetto alla Banda Comunale; i due futuri tastieristi (si, due, perché gli amici dovevano entrare tutti nella band) studiavano pianoforte ed erano il pezzo forte della band; il futuro chitarrista strimpellava la chitarra, ma non aveva la chitarra elettrica; io, incaricato di suonare la chitarra e cantare, lo facevo quotidianamente con la mia piccola acustica Eko del 1969 regalatami da mio zio, ma di elettriche non ne possedevo nemmeno una. Montagne da scalare? Almeno un Himalaya…
Il piano di attacco prevedeva che entro l’inizio della scuola (Settembre) dovevamo almeno aver fatto una prova. Dunque il primo passaggio, indispensabile, non poteva che essere il trovare gli strumenti musicali. Ovviamente, dovevamo attingere da tutte le nostre finanze – magre, molto magre – come punto di partenza, e poi chiedere alle nostre famiglie di fare un investimento. Anche voi riderete di questa frase, ma ne eravamo più che convinti: “Tra qualche anno, quando con la musica ci vivremo, vi ridaremo indietro tutto e con gli interessi”. A scriverla oggi la trovo innocente ma comunque dannatamente sincera. Ed in ogni caso, è uno dei modi per esorcizzare la vita, per renderla più umana. Lo scrivo subito, perché era anche il titolo di un film cui pochi hanno dato credito, ma che a noi piaceva: Volevamo essere gli U2.

Ci piaceva l’idea che stava dietro gli U2 ed i R.E.M. , che come noi erano partiti come compagni di classe e lì erano rimasti sempre, a girare il mondo per poi tornare alla fine di ogni tour nella loro terra. Anche noi volevamo essere gli U2 ed era un sentimento sano, forse la cosa più pura che ho provato nella vita insieme all’amore.

Trovare gli strumenti fu un passaggio ardito ma senza dubbio emozionante. Dovevamo per forza indirizzarci verso una strumentazione a basso prezzo e, ovviamente, passata da molte mani. L’altra opzione era spendere la stessa cifra per il nuovo, ma di scadente valore. Ognuno fece le sue scelte, ponendosi dall’una o dall’altra parte della barricata. Prima riesci a velocizzare l’acquisto della strumentazione, prima si riesce ad imparare a suonare uno strumento elettrico, che con il pianoforte o la chitarra acustica c’entrano veramente poco. Nel mese di Luglio dunque eravamo tutti intenti a capirci qualcosa, tra cavi ed amplificatori (altra spesa, anzi forse la più ingente).

Dopo lo svenamento familiare dunque, rimaneva il punto interrogativo più grande: dove fare le prove? Nella nostra città molti optavano per una soluzione comune, una sala prove condivisa tra molti gruppi. La parte negativa di quella soluzione stava nella necessità di accollarsi un affitto mensile, che seppur fosse a basso costo, per noi avrebbe comunque rappresentato un’ulteriore spesa. Ho sempre avuto una certa passione per disricare le situazioni di stallo, già a quel tempo avevo sviluppato in nuce questa caratteristica. Così mi ricordai di un vecchio capanno degli attrezzi nel campo di famiglia, una collinetta assolata fuori città dove un mio prozio, alla fine degli anni ’50, aveva costruito mattone per mattone una costruzione (con anche un caminetto artigianale) non più grande di tre metri per tre metri. L’intuizione fu che, essendo tutti alle prime armi, se avessimo condiviso una sala prove con qualcun altro ci saremmo demoralizzati subito, ed addio band. Probabilmente, anche senza conoscere la teoria, stavo intuendo che ci volesse un buon team building. Mi aiutò a realizzare il piano una persona che porto con me ovunque vado, soprattutto adesso che non c’è più: mio nonno. Da vecchio muratore rifece ex-novo quella casetta, mentre grazie al finanziamento di papà (la persona ancora oggi più importante nella mia vita) riuscimmo ad isolare il tetto con della carta catramata. Era il mese di Agosto, un caldo infernale, sei ragazzi poco più che adolescenti ed signore di 70 anni suonati sotto il sole a ristrutturare un vecchio e minuscolo deposito di attrezzi agricoli. Visto oggi, è ancora uno dei ricordi più belli. Eravamo orgogliosi, eccitati: volevamo essere gli U2.

La sera in cui terminammo la ristrutturazione, nel giardino di casa dei miei, venne il momento di trovarci un nome. Paradossale, perché non avevamo ancora suonato una nota tutti insieme. Ma un nome serve, ti individua, ti da ancora più spinta. Dovevamo darci un nome. Su un foglio di una vecchia agenda (sono sempre stato un accumulatore seriale) segnammo alcune proposte. Ricordo ancora che qualcuno propose Gli Erbivori, evidentemente giocando con qualche abitudine musical-adolescenziale. Alla fine però il nome di una band nasce con la band stessa, se lo trova da sola. In quella piccola stanza in cima ad una collina dovevamo trovare il modo di portare la corrente elettrica, perché non c’era. Come fare? Risolsi ancora una volta col problem solving, tirando fuori dalla cantina il gruppo di elettrogeno con il quale i miei genitori davano corrente (negli anni ’80) alla roulotte. Un pezzo di antiquariato, lurido di benzina e puzzolente ma che magicamente al primo tiro di corda…funzionava!

La tecnica era questa. Inserire in una bottiglia di plastica di acqua da 2 litri la miscela che utilizzavamo per i motorini (niente scooter, non c’erano ancora). Portare il gruppo elettrogeno in mezzo al campo, altrimenti vicino alla casetta faceva troppo casino e non riuscivamo nemmeno a sentire i nostri strumenti. Collegare un lungo cavo dal generatore di corrente e farlo entrare dalla finestra dentro una ciabatta per la corrente. Da lì collegare tutti gli strumenti.

Ero rimasto però alla scelta del nome. Il racconto del gruppo elettrogeno è fondamentale per capire quale nome scegliemmo, perché per fare luce trovammo una lampadina blu, mentre per simulare un lampadario prendemmo un fusto di birra vuoto al quale facemmo un foro per far passare il filo. Dunque le proposte rimaste sul campo erano due, abbastanza ovvie: i Gruppo Elettrogeno o i Blue Light.  Il primo sembrava troppo ironico e giocoso, invece noi eravamo seri, dannatamente seri. E quindi ci chiamammo i Blue Light. Senza nemmeno una prova, ma già famosi.

(continua…)

Commenti

Posta un commento