C’è stato un periodo, debbo confessarlo, in cui la spinta a
comprare i dischi mi veniva data dal nome del produttore nel retro-copertina,
un nome che, negli anni Novanta, era già una garanzia: Brendan O’ Brien.
Correvano, l’ho già premesso, gli anni Novanta, per chi
scrive un periodo d’oro per la musica e non solo per l’ondata grunge: il rock
classico americano ritornava in auge, il crossover diventata realtà, qualche
band storica tornava in studio e sui palchi. Lui, Brendan O’Brien, diventava un
mito e con molta franchezza possiamo dire che la fama se la meritava tutti.
Oltre ad essere un ottimo multistrumentista, eccelso
tastierista e buon bassista-chitarrista, raggiunge la notorietà come ingegnere
del suono nel famoso Shake your money maker dei Black Crowes. Da quel
momento in poi, per O’Brien si apre una carriera ricca di produzioni e
successi.
La band cui deve di più sono gli Stone Temple Pilots, con i
quali soprattutto dal secondo disco Purple crea il suono che diverrà la
marca di fabbrica non solo del quartetto di San Diego, ma di tutte le
produzioni del biondo di Atlanta: suoni perfetti, bassi meravigliosi che escono
dalle casse come coltelli infuocati nel burro, batterie perfette. Il suono di
Brendan O’Brien non ha mai un particolare fuori posto, ma soprattutto per ogni
canzone c’è una particolarità od uno strumento da far risaltare. Il produttore
quindi che diventa un elemento aggiunto fondamentale alla band. Quando sono
andato a sentire per la prima volta gli Stone Temple Pilots dal vivo, oltre ad
essere invasato per assistere alla performance di alcuni tra i miei miti, mi
mancava qualcosa: quel tocco che solo il produttore in studio riesce a dare.
Il suo marchio inconfondibile è stato impresso, tra gli
altri, su Vs. e Vitalogy (Pearl Jam), Superunknown (Soundgarden),
Follow the leader (Korn), Evil Empire (Rage Againgst the machine)
solo per dirne alcuni, pietre miliari del rock anni ’90.
Poi è arrivato il secolo corrente, ed ho iniziato a prendere
le distanze dal buon Brendan. Sia ben chiaro, un numero uno senza concorrenti
all’orizzonte, ma anche una figura talmente ingombrante da offuscare le band
con le quali lavora. A mio avviso, il problema sta nel fatto che il modo di
costruire, registrare e mixare i pezzi di O’Brien sia talmente perfetto da
risultare ormai manieristico.
Prendiamo The Rising di Bruce Springsteen. Avete una
band? Beh, il brano è veramente semplice, sia da un punto di vista di accordi
che di struttura. Provate a suonarlo con la vostra band allora: qualcosa non
torna. Nonostante tutti suonino esattamente le parti del disco, manca il quid,
quel qualcosa che si chiama Brendan O’Brien, quel mainstream che rende ogni
canzone una hit, ma che alla fine omologa.
Ecco il difetto del produttore maturo: cambia i musicisti,
facendoli suonare come vorrebbe lui. Un altro esempio? Rebel, sweetheart degli Wallflowers. Ok, qualcuno dirà che
quegli Wallflowers non avevano le canzoni di Bringing Down the Horse ed
il ragionamento fila. Ma il risultato è che in quel disco gli Wallflowers sembrano
i Train, con cui obiettivamente spartiscono un genere ma hanno peculiarità
opposte.
La scintilla per queste riflessioni mi viene da un ascolto
estivo reiterato: Holding all the roses dei Blackberry Smoke, band che
ha appiccicato addosso il tatuaggio del Southern rock. Passi per una prima
parte di disco molto accattivante, con ritornelli da stadio e suoni perfetti
che possono essere anche nel DNA dei Georgiani, ad certo punto si arriva a
“Payback’s a bitch” e…incredibile, gli Stone Temple Pilots!!!
Ora non confondiamo i piani, il sottoscritto appena sentita
la canzone suddetta ha iniziato a saltare dalla sedia e ruotare la testa
ma….non sono i Blackberry Smoke, anche se mi piacciono dannatamente tanto.
Mi chiederete allora, quali sono due esempi di ottime
produzioni? Difficile a dirsi, perché in realtà quelle di Brendan O’Brien sono
super produzioni senza sbavature, che valgono da sole gli euro di spesa del
disco. Certo però che due capolavori di suono americano vero, vivo sono il
citato Bringing down the horse degli Wallflowers e August and
everything after dei Counting Crows.
Alla produzione di entrambi siede una figura mitologica del
rock/blues americano: T-Bone Burnett. I punti di forza di quei dischi,
ascoltati oggi, stanno nell’aver ripreso i suoni senza stravolgerli, senza
enfatizzare. Tanto che, se provate l’esperimento di suonarli con la vostra
band, suonano senza inganni, sono reali.
Dunque, dove schierarsi, dalla parte del produttore che trasforma in oro
tutto quello che tocca, o da quella del vecchio amanuense, che riporta
fedelmente su nastro ciò che ascolta?
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