Hard Working Americans


Nati quasi per gioco, come un incontro fortuito tra musicisti con altre parentesi aperte e carriere già intraprese, gli Hard Working Americans rischiano di diventare una delle realtà più interessanti dell’intero panorama del roots rock americano.
La line up non lascia spazio ad indugi. I padri dell’operazione sono Todd Snider e Dave Schools, due nomi importante della scena americana (di nicchia, ovviamente). Il primo è un songwriter sui generis, ironico, caustico e con una voce particolare. Nonostante una cospicua discografia, Snider si era un po’ perso negli ultimi anni, complici anche problemi importanti con la legge derivati dall’uso smodato di droghe. Un personaggio insomma con una carriera in discussione.
Dave Schools invece non ha bisogno di presentazioni, in quanto storico bassista degli altrettanto storici Widespread Panic, jam band che ha raccolto troppa poca notorietà rispetto all’importanza nel quadro del rock psichedelico americano.
Snider negli anni cesella l’interpretazione di 40 brani nascosti del roots rock americano, gemme nascoste pescate qua e là. Propone questa idea a Schools, che ci costruisce sopra un supergruppo, come si sarebbe detto negli Settanta. Il nome più altisonante tra quelli assoldati è Neal Casal, attualmente chitarrista della Chris Robinson Brotherhood e precedentemente membro dei Cardinals a fianco di Ryan Adams.

Per essere chiaro con chi legge, il sottoscritto reputa Casal uno dei pochi talenti in circolazione. La sua chitarra in Cold Roses di Ryan Adams è sempre perfetta, mai una nota fuori posto, sembra di sentire una enciclopedia di country/rock/americana al lavoro ed attualmente, a fianco di Chris Robinson, la sua mutazione psichedelica lascia a bocca aperta.
Detto di Casal, il resto della truppa prevede Duane Trucks alla batteria, fratello di Derek e già membro dei King Lincoln, Chad Staehly alle tastiere (Great American Taxi) e, ultimo in ordine cronologico assoldato dapprima per i live ma ormai in pianta stabile, Jesse Aicock, ottimo chitarrista/songwriter di stanza a Tulsa/Oklahoma.

Con queste credenziali, di certo importanti solo per addetti ai lavori ed appassionati, ma comunque ben auguranti, il risultato poteva essere deludente od esaltante. Fortunatamente, l’omonimo disco di esordio supera ogni aspettativa.  
I brani scelti da Snider sono azzeccati e declinano in maniera perfetta il nome della band: storie di operai, di lavoratori delusi dal sogno americano, storie di stato sociale e di diritti mancati. Già questo basterebbe a dare spessore al disco, ma è nell’interpretazione che la band fuga ogni dubbio.
Le canzoni vengono interpretate con leggerezza, i suoni sono vintage e caldi e l’arrangiamento non è mai banale. Se sulla tecnica dei singoli non c’era dubbio, ci si poteva aspettare del manierismo: nulla di tutto ciò.  Anzi, sembra quasi che i musicisti giochino a nascondersi, ed è la melodia ad irrompere in primo piano; canzoni come “Down to the well” di Lucinda Williams, “Blackland Farmer” di Frankie Miller o “Welfare Music” (stupenda) dei Bottle Rockets vivono una seconda esistenza.
E’ soprattutto la coesione tra musicisti e suoni che risalta su tutto, quasi gli Hard Working Americans fossero insieme da qualche lustro.

Disco consigliato a chi ama il rock americano puro, vero.
Ed ora li attendiamo a proporci un disco tutto a firma HWA.

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