Pearl Jam. Trieste, 22 Giugno 2014

Quando nel Dicembre scorso vennero rese pubbliche le date del tour europeo a supporto di Lightning Bolt, più di uno scosse la testa nell'apprendere che dopo il concerto milanese a San Siro, l'unica altra data avrebbe avuto come location Trieste ed il suo stadio "Nereo Rocco". Alcune critiche, a giudizio di chi scrive, sono state anche giuste, considerato che il Centro ed il Sud Italia sono stati dimenticati dagli organizzatori, e che Trieste, ultimo baluardo ad Est della nostra penisola, non è così agevole da raggiungere nemmeno per chi abita in qualche regione del Nord.
A concerto avvenuto però la critica lascia spazio ad alcuni punti a favore. In primis, il fatto che il "Nereo Rocco" sia uno stadio di dimensioni contenute ha reso maggiormente intimo l'evento (non sono stato alla data milanese, ma di certo 70.000 spettatori contro 30.000 la dicono lunga sulla diversa capacità ricettiva dei due impianti e sulla qualità del suono). Poi c'è stata una organizzazione complessiva dell'evento che ha reso Trieste pronta ad accogliere questo fiume di fans, accogliendoli con una panorama mozzafiato, una città felice di ospitare un concerto così grande (e l'indotto ha ringraziato, col 100% delle camere disponibili occupate) ed una temperatura pressoché ideale, con i suoi 23 C° e brezza marina alle dieci di sera. Premessa lunga ma doverosa.

Dunque alle 16.00 coloro che vogliono conquistarsi un posto privilegiato nel prato sono già entrati. Di certo, quelli che stanno meglio sono coloro che hanno investito soldi per l'Inner Circle, mezzaluna in pole position sul palco con acustica migliore di tutto il resto dello stadio. Il resto dei paganti entra alla spicciolata, la coda viene smaltita velocemente.
L'aria è così diversa dai concerti del quintetto di Seattle di qualche anno fa. Nel 1996 a Roma il popolo dei Pearl Jam era (per lo più) un agglomerato di ventenni provenienti da diverse aree: punk pentiti, grungettari figli dei Nirvana, innamorati del rock classico, tutti pronti ad esplodere sulle note di "Animal" o "Spin the black circle". Oggi le facce sono quelle di un popolo che è andato avanti con gli anni, che aspetta in fila pacato il proprio turno per cantare a squarciagola ritornelli che hanno reso più semplice e più leggera la vita. Sono fans fedeli quelli dei Pearl Jam, che partecipano ad un rito collettivo, una terapia di gruppo di cui Eddie è lo sciamano, la fonte da cui abbeverarsi.

E per alimentare il mito i Pearl Jam spiazzano tutti sin dall'inizio. Ore 20.51. Un boato squarcia lo stadio, ed in fila indiana entrano sul palco i cinque di Seattle, addirittura in anticipo rispetto a quanto previstoContrariamente rispetto a quanto si potesse immaginare, il concerto inizia con una immersione nella parte più intima del repertorio: "Elderly woman....", "Lowlight", "Black" e "Sirens". Roba grossa. Soprattutto "Lowlight" viene vissuta intensamente dallo stadio, anche perché raramente è stata proposta dal vivo. Di certo "Black" invece non è una novità, ma Mike McCready è ispirato sin dalle prime note, e tira fuori un assolo emotivamente trascinante, allungando di molto la canzone. Siamo già tutti ai loro piedi e "Sirens" arriva quando ancora il tramonto illumina Trieste; è un pezzo da live, forse la cosa più pop proposta dai Pearl Jam, però si vola alti ed Eddie tira fuori tutto se stesso per arrivare a cantare ogni parola come su disco.
Dopo il quartetto iniziale si passa al furore, forse anche inaspettatamente. Ecco allora "Why go", "Animal", "Corduroy", "Got some" e chi più ne ha più ne metta. L'impeto è punk, si esagera un po' troppo con la velocità e qualche classicone rischia di essere rovinato da una voglia quasi latente di finirlo il prima possibile. "Deep" ad esempio sembra un pezzo dei Bad Religion, salvato da un McCready che ormai è il vero protagonista della band. Turba un poco invece la figura immobile, quasi scoraggiata, di Stone Gossard. Nella recensione di Lightning Bolt avevo scritto che il grande assente era proprio lui, ed ora ci si rende conto che certe sensazioni sonore hanno anche un fondamento sul palco. Si sente poco Stone, è vero che il suo ruolo è collegare e cesellare, il lavoro sporco insomma, ma sembra subire il peso degli anni: non si muove, disegna accordi lunghi, faccia imperturbabile...c'è maretta tra lui e gli altri?

La grandezza dei Pearl Jam moderni sta nell'attingere ad un repertorio ormai ampio, in cui le b-side vengono venerate almeno quanto i successi più acclamati. Ed ecco che, inaspettatamente, Vedder introduce una richiesta avanzata da chissà chi, ed iniziano a suonare "Leatherman", sconosciuto lato B di "Given to fly". Ecco i veri Pearl Jam, controcorrente, e la versione proposta sembra essere più bella di quella che registrarono nel 1998. Di certo c'è che l'album per il quale stanno girando il mondo anche dal vivo zoppica. Sarà perchè sono pezzi che hanno bisogno di un certo rodaggio, ma "Getaway" parte incerta mentre "Mind your manners" ancora non si capisce dove vuole andare a parare. Bella, bellissima invece "Infallible" dal ritmo altanenante, che già assomiglia ad un classico della band.

Appunto, i classici. A noi fortunati di Trieste ci toccano una "Jeremy" dai suoni scintillanti (interpretazione di Ament ai massimi livelli), una "Given to fly" a tremila all'ora (ormai è una costante) e "Rearviewmirror", che si trasforma in un divertissement per un Matt Cameron sempre impressionante. E poi, il regalo inatteso. "Crown of thorns" dei Mother Love Bone, i Pearl Jam in nuce ma con il compianto Andrw Wood alla voce. Eddie, forse per la prima volta in tanti anni di tributo alle proprie passioni, decide di non stravolgere nemmeno una nota dell'originale e si arriva al capolavoro, alla vera comprensione di cosa abbia lasciato il grunge e Seattle alla musica moderna. Quando Stone e Mike dialogano sulla base di accordi pieni e melodia si dimostrano una coppia dagli alti regimi e la sensazione è che il tempo dei bicordi sia passato. "Alive" rafforza questa idea: grande interpretazione, melodia in primo piano.

Dunque i Pearl Jam sanno ancora stregare, anche quando "Once" è decisamente un po' troppo sopra le righe anche per i fans sotto il palco, i cui movimenti ad onda non sono più quelli degli anni '90. Forse al posto di questi rockettoni a mille il presente dei nostri richiederebbe la riproposizione di grandi brani sparsi in album ormai dispersi, quali Binaural e Riot Act (ma "I am mine" non era forse il saluto più giusto dopo una serata così?).   

Il rito collettivo si conclude con "Yellow Ledbetter", come da copione lasciandoci andare a letto ma di fatto tenendoci svegli per una notte intera. In attesa di un altro incontro.  



Commenti

  1. Ti invidio, ti invidio, quanto ti invidio, mon amì :)

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  2. ;-) gran concerto Nick! e non ti dico le facce dei nostri vicini di posto nel vedere Giulia ormai all'ottavo mese... :-)

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