Il nostro viaggio. Da Chicago a Des Moines. We love you, Iowa

Lasciare Chicago è inusuale. O meglio, non abbiamo conosciuto mai nessuno che lasciasse Chicago per il West. La città che sorge sul lago Michigan è un intreccio di verde e modernità, barche affollate di turisti che solcano l’omonimo fiume ed inattese spiagge nella zone del North Shore, da cui è difficile staccarsene: perché lasciare Chicago?

L’Illinois, a parte la sua capitale che fagocita la vita della terra di Lilcoln come una mantide religiosa con il marito, è un lembo di terra stretto e relativamente lungo, e sembra che tutte le strade debbano finire a Chicago. Ma uscire dalla metropoli del blues urbano e di Obama è talmente semplice che in pochi minuti si è già in aperta campagna, salutando gli ultimi campi da baseball, che in città forse sono più numerosi delle persone.
Naperville, De Kalb e Dixon, le città che incontriamo nel tracciante dell’Interstate che conduce verso ovest, sono solo minuscoli puntini nella campagna. La nostra meta è Des Moines, in mezzo all’Iowa nonché la sua capitale, ma più che altro siamo partiti per la conquista del west, in una terra che, pur essendo parte integrante degli Stati Uniti, vive in disparte, fuori dalla cronaca e dalla mondanità.
Siamo nelle Grandi Pianure, che tanti racconti e leggende hanno ispirato. La prima sensazione che viene in mente è che il nostro stesso tragitto è stato percorso da Sal Paradise, l’eterno protagonista del romanzo che delle strade degli States ha creato un vero e proprio mito: On the road di Kerouac. Nel suo primo trasferimento per raggiungere Denver in Colorado Sal percorreva questo stesso nostro tragitto, descrivendo le Grandi Pianure come il posto dove l’America diventa rurale, contadina e c’è poco spazio per mode o atteggiamenti.

Lo sguardo oltre il finestrino è a perdita di occhio. I confini si perdono e, almeno per quanto riguarda il primo tratto di strada, tutto nell’Illinois, il grano giallo appena tagliato rafforza la luce del sole, tanto che tra il blu intenso del cielo e la luminosità del terreno risulta quasi difficile guardare oltre. Ma la nostra curiosità, oltre che la nostra meta, è l’Iowa, dal quale non sappiamo cosa aspettarci. Lo stesso Sal Paradise lo descrive come il posto d’america dove “le torte di mele ed i gelati sono più grandi”, confermando uno stereotipo secondo il quale questo è il regno dei redneck, coltivatori di terra sotto il sole (d’estate, perché l’inverno degli stati centrali è molto rigido) che con i loro pickup, gli stivali di pelle ed i cappelli a falda larga, nonché il voto ai repubblicani, vengono considerati la parte meno colta ed interessante del paese. Sarà vero?

Poco prima di salutare l’Illinois, con la conferma che a parte l’elegante, moderna e commerciale Chicago è talmente agricolo da creare un contrasto veramente attraente, lo skyline diventa più verde e da lontano si intravede un ponte tipicamente americano, con acciaio in vista che vagamente ricorda quelli delle ferrovie. Dalla sua lunghezza, ma soprattutto dal cartello verde che solo un chilometro prima indica l’uscita per Mississippi River, capiamo che siamo giunti alla porta dell’Iowa, ma soprattutto che stiamo per incontrare il simbolo di un intero continente: il fiume Mississippi.
Senza nemmeno porci alcun dubbio usciamo dall’Interstate poco dopo aver attraversato questa bella opera di ingegneria che in realtà non contrasta con il paesaggio intorno. Una rampa in discesa ci fa subito scendere nel lungo fiume, che, pur essendo a pochi metri sul ciglio destro della strada, è ancora coperto dagli alberi e da qualche casa. Così prendiamo la prima strada lungofiume che intravediamo, e davanti a noi si apre il padre di tutti i fiumi americani. La sua larghezza ma soprattutto la portata sono enormi, rendendolo di fatto navigabile già da questo tratto. Tra il caldo e la conseguente foschia (sono circa le una di pomeriggio) si fa addirittura difficoltà a scorgere alcuni particolari sulla riva opposta. Ed al suo arrivo al mare manca ancora tutta l’America!
Vogliamo, come tutti quelli che sono cresciuti con il mito del Grande Fiume, parcheggiare l’auto e respirare l’aria di queste acque.
Il Mississippi è molto di più che un fiume. Grazie alla sua lunghezza (nasce nel Minnesota e si unisce al Mare nel Golfo del Messico dopo aver attraversato Wisconsin, Iowa, Illinois, Missouri, Kentucky, Arkansas, Tennessee, Mississippi e Lousiana) è in realtà l’anima dell’America, ed ha contributo in maniera determinante alla crescita sociale ed economica del Paese. La sua grandezza (solo adesso che lo abbiamo davanti ai nostri occhi e così vicino alla sua sorgente capiamo la sua immensità) lo ha reso navigabile sin dal primissimo tratto e quindi fondamentale per il passaggio delle merci, che potevano attraversare da nord a sud il paese.
Intorno al fiume poi è cresciuta la spina dorsale dell’America. Negli stati del Sud intorno ai suoi argini trovavano casa, in baracche di legno cadenti e malsane, gli schiavi neri addetti alla raccolta del cotone, per la cui crescita le acque del Grande Fiume sono indispensabili. In ambito musicale musicale poi questo è il simbolo di un intero genere, il blues, in quanto gli stessi neri tornando da giornate infinite nei campi intonavano gospel sulle sue rive, sino a che i vari Robert Johnson o Muddy Waters riuscirono a entrare in possesso di una chitarra, divenendo maestri unici di una intera generazione, esercitandosi nelle umide sere davanti ai porticati decadenti delle loro baracche sul fiume.
Chi non ha mai visto le imbarcazioni bianche con un enorme mulino di legno laterale mentre risalgono il Mississippi? Chi non ha immaginato le sue acque fangose mente si avvicina al Golfo del Messico? Chi non ha letto, anche solo per divertimento, le avventure di Huckleberry Finn narrate dal grande scrittore Mark Twain? Il Mississippi, pur così distante ed arduo da raggiungere (è fuori da tutte le mete turistiche consigliate negli States) fa comunque parte di un immaginario collettivo, di una certa idea di mondo, che qui da immaginazione si fa realtà. Non bastassero i racconti degli scrittori americani o le immagini di centinaia di film, il Grande Fiume è stata la via utilizzata dai bluesman neri del Sud per fuggire dalla schiavitù e trovare fortuna (e rinascere) a Chicago. La stessa Windy City ne porta con orgoglio i segni: la prima House of Blues d’America e il locale dell’immenso Buddy Guy, anche lui partito da Lettsworth in Louisiana e, risalendo il Mississippi, giunto a Chicago.

La piccola stradina che costeggia il fiume ci riporta almeno cento anni indietro. La percorriamo a passo d’uomo, in attesa di trovare un parcheggio. Sul lato sinistro il Mississippi, a circa tre metri dalla fine dell’asfalto, mentre sul lato destro dell’auto una fila di casupole il legno dall’architettura tipicamente americana su due piani e dai colori pastello. Di fronte, un piccolo giardinetto in realtà poco curato se confrontato con la maniacalità media degli americani per la cura del prato inglese. Accanto ad ogni casa un’auto parcheggiata, di solito un pick up o un fuoristrada non proprio di ultima generazione. L’impatto è emozionante, perché d’un tratto dall’interstate popolata di auto si viene catapultati in un mondo dove tra umidità e case in legno ammuffite dal caldo (e qualcuna anche disabitata ed in vendita) il tempo sembra essersi fermato.
Riusciamo a parcheggiare su un piccolo piazzale di breccia, accanto a qualche barca ancora sul carrello. L’aria esterna supera i 35°, non si intravede nemmeno una nuvola ed il sole è in linea retta sulle nostre teste. Nonostante questo, a circa dieci passi da noi c’è il Mississippi maestoso, e senza dire niente siamo come attratti sulla sua riva.
Il fiume ha un rumore soffuso. Strano, visto dal ponte ci aspettavamo il tipico suono dei grandi corsi d’acqua. In questo punto sembra silente, ma non scorre lento e soprattutto ci rendiamo conto della sua vastità. Di fronte ad ogni casa ci sono piccoli pontili di legno, tutti artigianali e tutti costruiti alla buona dai proprietari. La manutenzione è poca, tanto che alcuni di essi sono crollati in acqua.
Piccole piante acquatiche galleggiano vicino a noi, insieme a foglie cadute dagli alberi. Nonostante gli stati del Sud siano lontani, si respira in realtà un’aria sudista, probabilmente è colpa del caldo asfissiante.
Le poche imbarcazioni che riusciamo a scorgere, a parte una barca a remi ancorata alla meno peggio su uno dei pochi pontili ancora in piedi, sono di modeste dimensioni e non sembrano far rumore.

Ogni cinque/sei metri ci sono delle panchine in legno e dei tavolini, di certo costruiti dagli abitanti del luogo, che però non riusciamo ad incrociare, anche se la bandiera americana sventola poderosa sui loro giardini. Le zanzariere su ogni finestra indicano che qui l’estate si fa sentire, e non ne abbiamo alcun dubbio anche perché enormi zanzare e libellule dalle proporzioni mai viste ci girano intorno.
Bisogna aspettare qualche minuto per entrare nel mood del luogo e poi si capisce perché il Mississippi è IL fiume. L’aria rilassata prende il sopravvento, e lui sembra scorrere accanto senza essere invadente. Comprendo la necessità degli abitanti di trascorrere le giornate con la chitarra acustica sul patio e su una sedia di legno, perché in questo momento ne vorrei avere una con me per accompagnare il lento corso delle acque. Sarà il mito con il quale siamo cresciuti, ma vengono alla mente i blues di T-Bone Walker, B.B. King, Blind Lemon Jefferson o il grande Mississippi John Hurt, il primo vero suonatore acustico che seppe mescolare blues e country. Prima di incrociare le acque del Grande Fiume avevamo messo sul lettore dell’auto l’ultimo capolavoro di Kelly Joe Phelps, l’unico vero erede della dinastia dei bluesman chitarra acustica e voce. Tutto torna.

Poco più avanti, diversi rami conficcati sugli argini per appoggiare le canne da pesca, mentre è curiosa una struttura in legno a circa due metri dal fiume, abbastanza grande nelle dimensioni e ricoperta da una spessa zanzariera, all’interno della quale, evidentemente, la sera si cena cucinando nelle griglie antistanti il pesce pescato in giornata.
Intorno a noi non c’è segno di modernità. Niente negozi o ristoranti.
Il fiume è magnetico, si possono passare intere ore a guardarlo senza comprendere il perché.
Ritorniamo all’auto con la netta convinzione che da adesso in poi ci aspetta un’altra America, nascosta e timida, che andrà guardata non con gli occhi del turista, quanto con la curiosità di leggere dietro l’apparenza, prediligendo la sostanza più che la forma.

Anche se la forma, non appena tornati sull’Intestate, lascia esterrefatti. Subito dopo il Mississippi il paesaggio cambia. Siamo nell’Iowa, lo stato di cui nessuno conosce nulla e che non trova spazio nelle cronache, mondane o sportive che siano.
Intorno a noi, sin da subito, è tutto verde. Sono piante di mais che si perdono a vista d’occhio. Miglia, miglia e miglia di mais. Ogni tanto, leggere colline ricoperte di mais come una lana di pecora verde che le avvolge dolcemente, intervallata di rado da qualche strada di campagna. I fienili sono enormi, rossi porpora con alte porte bianche. Noi credevamo esistessero solo nei film, che fosse tutta una invenzione per farci credere che ancora esistesse la vita rurale. Invece è tutto vero, e la realtà supera la fantasia. Se nello stato di New York o nell’Ohio le aree di servizio si trovano con facilità, qui facciamo difficoltà a trovare un posto per fare pranzo. Siamo nel nulla, ed il traffico che c’è sulle nostre corsie (due per ogni senso di marcia) è composto quasi esclusivamente da enormi truck che invadono lo specchietto retrovisore.
Il primo istinto è quello di uscire dalla strada principale e scoprire cosa c’è intorno. Lo facciamo anche se non volutamente, ma per l’esigenza di trovare un luogo di ristoro. La strada si inerpica su una collinetta invero abbastanza bassa, ma il grande fienile accanto alla casa in legno e le mucche al pascolo (oltre al consueto mais) ci fanno salire in gola un groppo di emozione.
Siamo qui, ma non sappiamo esattamente dire dove. L’ultima città è stata Davenport, poco dopo il Mississippi, ed ora sino a Des Moines e per tre intere ore di viaggio a 65 miglia orarie (guai a sgarrare) non ci aspetta nessun centro urbano. Mais e solo mais.
Cosa è l’Iowa, adesso che ci abbiamo messo i piedi sopra? E’ il protagonista della cintura del Corn belt, un enorme serbatoio di grano, mais e allevamenti dove si contano poche città e comunque non molto popolose.

Solitamente i turisti non vengono qua, perché non esistono attrazioni, e nel momento in cui abbiamo disegnato il nostro itinerario questo era il luogo dal quale non sapevamo cosa aspettarci. Però volevamo fortemente arrivare qui, dove le grandi catene di fast food non hanno preso il sopravvento, dove gli inverni sono sotto zero e le estati raggiungono facilmente i 40°. In Iowa i turisti non li cercano, ed i pochi cartelli in giro indicano la casa natale di John Wayne come l’attrazione principale. Per farvi una idea di quale spettacolo crei la natura, guardate I ponti di Madison County di Clint Eastwood, girato proprio nella contea di Madison, nel cuore dell’Iowa, che riesce se non altro a far immaginare questo verde sconfinato interrotto da piccoli laghetti, ponti e pascoli, in una cornice che non sembra essere reale.
L’interstate prosegue dritta senza nemmeno una curva, mentre dai nostri finestrini vediamo questa America assonnata, quasi inesistente. E’ pieno pomeriggio, probabilmente la vita nei campi è gia terminata, in ogni caso non c’è nessuno lì in mezzo ed i pochi fuoristrada parcheggiati nelle vie brecciose che portano ai fienili sono vuoti. Un ruscello di poca portata, almeno in questa parte dell’anno, costeggia per alcuni chilometri la nostra autostrada, che adesso assomiglia di più ad un lembo di asfalto perduto su un tappeto verde, senza alcuna protezione ai lati. Ci facciamo accompagnare dalla musica dei Black Crowes. Niente più di Appaloosa riesce a rendere l’idea di cosa stiamo sentendo. Al di fuori del caos di New York, dei grattacieli di Chicago e del freddo lago Michigan che bagna Cleveland, questo paesaggio ci dona la serenità dei grandi spazi. Guidare senza vedere la meta, avvolti da una pianura infinita che cambia le proporzioni.

Gli interrogativi della mente scorrono veloci. Come sarebbe svegliarsi col solo rumore degli scoiattoli che tintinnano sulle finestre? Com’è raccogliere il mais mentre la radio passa Hank Williams tutto il giorno? Com’è che nessun nostro conoscente, sino ad ora, ha incrociato le strade dell’Iowa? “Appaloosa, take me home where I can dream my days away”

Dopo circa due ore e mezzo di pianura le prime segnalazioni del prossimo arrivo a Des Moines. La capitale dell’Iowa è una città piena di giardini, alla confluenza di due fiumi: l’omonimo Des Moines ed il Raccoon. L’autostrada a cinque corsie stride con quello che ogni vediamo, e cioè una sonnolenta città avvolta dagli alberi, con case in legno dai colori tenui e giardini enormi. E’ venerdì, e l’attrazione del week end è una mostra di auto d’epoca e muscle cars, che infatti invadono le vie della città. Vecchi pick up Ford, Camaro dalle ruote enormi o Oldsmobile grigie tirate al lucido, l’America di provincia ama distrarsi col rombo dei motori. In realtà la festa è più ampia, e prevede una parata di diverse scuole, stand all’aperto e tanto zucchero filato, ma lo scopriamo solo una volta arrivati in albergo, in uno dei tanti canali che parlano sono dell’Iowa.
Tramortiti dalla bellezza del viaggio, usciamo solo per dieci minuti dopo cena, apprezzando un vento leggero che mitiga il caldo della giornata. Nonostante l’interstate sia comunque a pochi passi da noi, il silenzio riempie il paesaggio che abbiamo intorno. Buonanotte.

Il centro di Des Moines ha lunghi viali e tanto spazio a disposizione, un concetto di città che per noi europei è estraneo. In quella che gli americani chiamano downtown, ma che qui è solo il centro città, un solo grattacielo ma molto caratteristico con la sua punta affusolata, mentre per collegare gli edifici pubblici e commerciali più importanti è stato costruito un tunnel sospeso in aria, rifugio invernale per una città che ha contrasti climatici forti.

Oggi però c’è il mercato settimanale, è sabato mattina, e ci sentiamo anche noi un po’ cowboy, mentre camminiamo tra decine di gazebo bianchi che vendono perlopiù prodotti agricoli. E’ il famoso Farmer’s Market, nel quale i coltivatori vendono direttamente i prodotti della propria terra. Se il concetto è che “tutto in America è più grande”, dalle dimensioni di cipolle e carote si rimane esterrefatti. Questa terra è estremamente adatta alla coltivazione, ed i frutti sono bellissimi anche a vedersi, con colori sgargianti e profumi intensi. Non mancano alcuni gazebo con musicisti folk e country, e con voci paradisiache che si intrecciano l’una sopra l’altra.
Al di la del ponte, Main Street si conclude con l’enorme Campidoglio, sul quale campeggia una cupola color oro che lo rende visibile da molte zone della città.

Des Moines ha colpito i nostri occhi ed il nostro cuore, e mentre la lasciamo diretti verso il Nebraska la nominiamo il luogo nel quale desidereremmo vivere, tra il mais sconfinato, i giardini dall’erba curata, il country rock nelle orecchie e questa America dimenticata che è così bella da lasciare senza fiato.
Eppure il Nebraska sta per arrivare………………….



Commenti

  1. Ciao ! Ricambio la visita e ti inserisco fra le mie letture preferite. Con calma leggerò tutto, ma già una rapida occhiata mi fa pensare che i nostri gusti siano simili : americana e blues sono i generi che preferisco.
    A presto.

    RispondiElimina

Posta un commento