Prima, durante e dopo: il blues






Un aspetto che rende difficoltoso avvicinarsi al blues è di fatto l’eterogenietà di declinazione di questa parola, che assurge a simbolo di un genere musicale il quale, al suo interno, conta una serie di innumerevoli  ramificazioni, unite certamente al tronco principale ma col tempo inesorabilmente contaminatesi.
E’ difficile dire, nel 2013, cosa sia realmente rimasto della singola parola blues , scevra di ogni altra contaminazione. La prima riflessione che mi viene è che inevitabilmente definirlo nella sua purezza oggi vuol dire avere come zenit il suo più grande artista vivente, vale a dire B.B. King. Se decidiamo, e non penso possa essere criticabile, che il blues puro a 13 anni dall’inizio del nuovo millennio è rappresentato dal più che ottantenne B.B. King allora abbiamo messo un primo punto fermo nella nostra esplorazione.
D’altronde Riley B. King possiede il curriculum giusto per assumere il ruolo: nato a pochi chilometri dal Delta del Mississippi, vissuta la sua giovinezza ad Indianola e creato il suo mito a partire da Memphis, non fosse altro per la sua storia lui è il blues. Se diamo per certo che il blues nasce nei campi di cotone e si sviluppa nelle 12 battute classiche grazie all’aiuto di una chitarra, la storia di BB King è una eredità diretta di Blind Lemon Jefferson, Mississippi John Hurt e Robert Johnson, per dirne appena tre. Soprattutto il King non ha mai giocato a rimodernare la sua interpretazione. Qualche volta ne ha proposta una salsa soul, qualche altra ha strizzato l’occhio al pop delle classifiche (The thrill is gone, obiettivamente, è un biglietto da visita superficiale e che poco ha a che vedere con il nostro), ma mai è stato possibile scambiare il suo lavoro per qualcosa di altro.
Dunque, B.B. King è il nostro zenit. Lo caratterizza, da sempre, una backing band nutrita ed assolutamente intrisa di blues, con tutti i suoi cliché. Prima importante ramificazione: oggi il blues canonico lo si affronta con una band di supporto composta (almeno) da: batteria, basso, tastiera, una chitarra ritmica ed una sessione di almeno tre ottoni. Ecco che allora la definizione dei Blues Brothers quale soul-band è riduttiva: a parte il cameo di Aretha Franklin, c’è poco soul e tanto blues nei Blues Brothers (guarda caso, B.B….). Buddy Guy gira il mondo con una band così composta, e non c’è dubbio che anche lui sia nel solco della tradizione, semmai un po’ più elettrico (ma stiamo parlando di dettagli). Chi invece era realmente soul/blues erano i The Commitments, ma il fatto che siano europei giustifica la loro particolarità.

E’ strano in realtà che si sia giunti a definire il blues con un ensemble così numeroso. In fin dei conti gli antenati ce li ricordiamo per una chitarra, una possente voce e poco più. Lo stesso Muddy Waters divide la sua carriera in due momenti: quello dell’esibizione in solitario ed il successivo con una band di supporto, con una differenza però rispetto alla super band: il terzetto.
Si entra qui in una versione famosa ed altrettanto importante del genere. Il trio composto da basso, batteria e chitarrista/cantante è un classico da almeno 50 anni, dal citato Muddy Waters al compianto John Lee Hooker. Probabilmente è anche la trasformazione più comprensibile se riferita alla storia di questo tipo di musica: il terzetto prevede pochi strumentisti, è snello nella sua interpretazione e soprattutto lascia spazio alla libertà dei suonatori. E’ anche la forma interpretativa che maggiore successo ha avuto negli anni, e che tanto è piaciuta ai cosiddetti artisti blues/rock, che ne hanno sublimato l’essenza. Johnni Winter e Albert King sono stati i capiscuola del combo a tre, occasionalmente aperto alla figura del pianista/organista. Di certo Stevie Ray Vaughan lo ha fatto diventare leggenda con i suoi (fantastici) Double Trouble.
Continuo a pensare che B.B. King non ha mai amato troppo questa forma essenziale di sonorità per la sua nota avversione all’accompagnamento e la contemporanea passione per New Orleans, altro grande filone.
Louis Armstrong è stato il più famoso a proporre la sua versione di blues, il New Orleans style, probabilmente il più intrigante, di sicuro il più libero da schemi. Se guardiamo al jazz come ad un figlio del blues (dubbi su questo?) di certo ad un certo punto si sono incontrati di nuovo, probabilmente a New Orleans, dove l’uno si era emancipato dall’altro. Il risultato? Una versione allegra, jazz, swing della musica dalle 12 battute, alla quale B.B. King ha sempre guardato con ammirazione ma che non ha mai voluto percorrere sino in fondo, probabilmente per questioni legate al suo pubblico ma anche alla sua tecnica, che un po’ sa di jazzy, è vero, ma tanto deve ai maestri del Mississippi.

La musica di New Orleans, ed i jazzisti della Crescent City, sono una storia a parte, un mix di suoni e musicalità che può nascere solo nella città delle tante culture che convivono. Un buon esempio oggi è la Dirty Dozen Brass Band: allegria allo stato puro, è vero, ma con un piede bello fermo nel blues. Il simbolo, se proprio un’icona deve essere rintracciata, è Dr. John, l’anima blues/soul/funky di New Orleans, e proprio lui ci insegna che niente è definito nella capitale della Louisiana, tanto che a lui ed ai suoi figliocci musicali, per non creare ulteriore confusione,  hanno incollato l’etichetta di New Orleans R&B, e la compagnia è piena di eccellenze: i Neville Brothers, Fats Domino e l’impeto di Trombone Shorty su tutti.
Mi ha colpito molto il disco che John Scofield due anni fa ha voluto dedicare a New Orleans: Piety Street. Lontano delle sue gloriose esperienze jazz, qui Scofield reinterpreta brani della tradizione gospel con un quartetto che prevede la presenza di un organista/pianista di primo piano quale Jon Cleary e l’influenza della città è presente in ogni singola nota di questo assoluto capolavoro.

Certamente lontano da B.B. King è il Texas blues. L’impeto di Stevie Ray Vaughan è ancora nelle nostre orecchie e per sempre vi rimarrà, ma certo il Texas è una terra di bluesman infuocati: ZZ Top, Albert Collins, Jonny Copeland, Lowell Fulson e Freddy King sono stupefacenti chitarristi dal voltaggio alto, ma pur sempre nel solco della tradizione.

E’ da questo universo che bisogna partire per approfondire personaggi, suoni e soprattutto dischi.

In blues we trust.

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