Counting Crows. August and everything after vent'anni dopo

Venti anni fa cinque sconosciuti ragazzi dei dintorni di Los Angeles davano alle stampe il disco più emozionante e profondo della musica degli anni ’90. I Counting Crows si sono svelati al mondo con un album, August and everything after, perfetto in tutto, dalla copertina dal sapore letterario ai testi struggenti di Adam Duritz, con l’aiuto di una musica erede della Band (con e senza Bob Dylan).
Correva l’anno 1993, la Cecoslovacchia cessava di esistere dividendosi in 2 stati, la Russia di Eltsin per la prima volta otteneva aiuti economici dal vecchio nemico a stelle e strisce per sostenere la propria industria in declino ed in Italia la Democrazia Cristiana cambiava nome in Partito Popolare Italiano. In questo stesso anno un certo Adam Duritz, dai natali nella Cheasapeek Bay sull’Oceano Atlantico poi trasferitosi nella caotica Los Angeles, dispensava in undici canzoni la sua sofferta voce e le liriche di un’America lontana dalle luci sfavillanti delle metropoli e delle downtown.

I riferimenti per l’esordio dei Counting Crows sarebbero così tanti da fare torto ad un’opera prima che ha contribuito in maniera essenziale al ritorno ed alla ridefinizione del rock americano, in bilico tra folk ed elettricità, nel quale i protagonisti sono le persone della strada, gli abitanti delle sperdute città dell’America di mezzo, il Nebraska al posto di New York, le luci spente alle nove di sera al posto di Time’s Square. Ed è tutta farina di Adam Duritz, perché senza i suoi versi intrisi di Steinbeck e di Richard Ford, senza la sua voce che si inerpica lungo la schiena come un sentimento primaverile, i Counting Crows sarebbero un fiore senza petali. Intendiamoci, lo spartito musicale è ricco, con un organo bello presente ed una chitarra (che diventeranno dal successivo Recovering the satellites due) che dall’essenziale sa trasformarsi in evocativa, ma non c’è sperimentazione nella loro costruzione. Round Here, cui spetta l’onore (ma anche l’onere) di aprire il disco, poggia sua quattro accordi quattro, eppure l’arpeggio iniziale di David Bryson incide già un solco tra la musica che c’era prima di August… e quella che dopo verrà. Ma sono le storie ed il modo che Duritz ha di raccontarle, che restano implicate nelle tele della nostra memoria. E Round Here assolve al suo compito, con il racconto di Maria, nome scelto per essere simbolo di qualsiasi donna, in qualsiasi parte degli Stati Uniti ed implicata in qualsiasi vita anonima, che “dice di pensare di saltare giù…dice di essere stanca di vivere, dice di essere stanca di qualcosa”. E dopo questi primi 5 minuti ed oltre, laddove ci si attenderebbe una sferzata di elettricità a rasserenare l’aria, eccoci a Omaha, la capitale del Nebraska, confusa tra sterminate pianure, strade che non finiscono e vagoni ferroviari lunghi come grattacieli in orizzontale. “Somewhere in middle America” canta Adam, e non è solo un’impressione quando al posto della chitarra le danze hanno inizio con una fisarmonica.

Dopo questo incipit, i Counting Crows giocano la carta della vita, la canzone per la quale subito al primo disco rimarranno nella storia della musica. Vista adesso, a venti anni di distanza, Mr. Jones è talmente semplice da sembrare scontata. Orecchiabile certo, ma nasconde qualcosa dentro sé. “Tutti noi vogliamo essere grandi stelle, ma ne abbiamo motivazioni diverse. Credi in me, perché io non credo in niente”.  A sentirla uscire dalla radio sembra così tranquillizzante da non far pensare ad un’altra storia di periferia, anime nella penombra sotto un cielo plumbeo di pioggia. Chitarre grigie. Picasso. Bob Dylan, ancora.

Si potrebbe dire che August… si muove su questi binari: il folk-rock e la narrazione, ma sarebbe ingiusto derubricare Anna Begins e Raining in Baltimore come manierismi. Il ritmo lento  della prima, scandito esclusivamente dalle pulsazioni nervose del rullante, che fluentemente scende in un chorus meno opprimente, e la triste dolcezza della pioggia a Baltimora, brano che sembrerebbe più adatto al decimo disco di un gruppo affermato, laddove si raccontano le malinconie della vita del tour, lontano dagli affetti. Ma Baltimora è dall’altra parte di Los Angeles anche nell’opera prima, e Adam sembra avere la penna di chi ha già viaggiato tanto. E visto ancora di più.

Il grande merito dei Counting Crows di August and everything after è di rendere mainstream strutture e suoni che il resto del mondo considerava destinati all’oblio. Charlie Gillingham, stupendo suonatore di piano/organo/mellotron è il contraltare di Adam, indispensabile in ogni brano, ma chi mai avrebbe pensato di ridare a questo strumento un ruolo centrale del rock? In Ghost Train (altro titolo a metà tra il cinema e la letteratura) l’Hammond si inerpica in un assolo epico, distante dai nervosismi con il quale viene utilizzato in altre musiche (blues e soul su tutte). Pochi secondi dopo Duritz non perde l’occasione per mantenere alto il pathos: “Ho visto i battelli scomparire sotto le onde che cadono”. D’altronde “l’amore è un treno fantasma che urla alla radio”.
La nostra vita, quella di tutti i giorni, è sotto la lente di ingrandimento, con le sue vicende insignificanti che trovano spazio tra un accordo ed un altro. Ed allora “prendi la strada di casa che porta a Sullivan Street…oltre le ombre che cadono ovunque ci incontriamo” (Sullivan Street).
Non manca il sole in questo lavoro, che si apre e si chiude con l’arancione intenso della copertina, quasi insabbiando le parole che come in un flusso di coscienza interminato vengono incise sopra. In Rain King (“Quando penso al paradiso, penso di volare in un mare di penne e piume”) c’è un’aria canzonatoria, da chi non vuole prendersi troppo sul serio, mentre nella conclusiva A murder of one (quanti romanzi in un titolo così breve) l’atmosfera sembra ispirarsi agli U2, ma c’è tanta più roba da ascoltare e da pensare.
A venti anni esatti di distanza il peso del tempo non scalfisce un disco emozionante. Anzi ad un ulteriore ascolto le sfumature degli arrangiamenti, semplici eppure così efficaci, prendono ancora maggiore sostanza: un assolo di troppo, una distorsione maggiormente presente o anche solo un passaggio di batteria in più avrebbero rovinato la dolcezza soffusa di questo capolavoro. E siccome niente è per caso, le ultime parole sussurrate da Adam al termine dell’album variano quasi incomprensibilmente da shame (vergogna) a change (cambiamento). Volutamente, ovvio.

Commenti

  1. Per me un disco imprescindibile, uno dei più belli della mia vita.Ascoltato la prima volta ad agosto di quell'anno,in un momento di cambiamenti epocali. A mio avviso i CC, pur rimanendo un'ottima band, non si sono mai ripetuti a certi livelli. Grande post, me lo sono bevuto!

    RispondiElimina

Posta un commento