Blues oggi - parte II

L’avvento dirompente, proprio agli albori degli anni ’80, di Stevie Ray Vaughan nel panorama del blues ha sconvolto tutta le geografia del genere. Esiste, come per i grandi talenti che riscrivono i canoni musicali del periodo, un prima Stevie Ray Vaughan ed un dopo.
Per il Texas in particolare, l’eco del successo del suo figlio meticcio di Austin ha rappresentato una spartiacque inevitabile: sentire un bluesman di Dallas, Austin o Forth Worth oggi vuol dire riconoscere dopo pochi secondi uno stile inconfondibile: quello del grande SRV.

Di figli musicali del grande Stevie sono piene le classifiche di blues e blues/rock (ma anche di rock, in questo caso il confine è labile oppure proprio non pervenuto).
Per ovvie motivazioni geografiche, partiamo dal Texas e dalla sua Austin, ed inevitabilmente da Chris Duarte. Il suo primo disco, Texas Sugar/Strat Magik (titolo troppo derivativo, ma il blues non guarda la forma) è probabilmente anche il suo zenit, sino ad oggi. Duarte ha il grande pregio nel suo esordio di prediligere la forma canzone e quel suono pulito e potente (appunto, Stratocaster style) che il suo concittadino aveva reso celebre nel mondo.

Chi deve tanto a Vaughan, anche se il suo stile è molto più rock/soul oriented, è il newyorkese Popa Chubby, che da Gas Money del 1994 sino ad oggi ha licenziato oltre 20 album, con una scrittura altalenante ma con un blues sempre presente e vigoroso. A metà degli anni ’90 si parlava di lui come di un talento da un avvenire florido, ed il suo non aver mantenuto le promesse (da un punto di vista di scalata delle chart) è soprattutto dovuto all’incapacità di sfornare un singolo da classifica.
A differenza degli axeman sinora citati è l’unico ad avere tra i riferimenti Sly & the Family Stone, il che la dice lunga sulle sue contaminazioni.

Deve poco invece al suo concittadino di Austin il giustamente acclamato Gary Clark jr. , che nel 2012 ci ha deliziato con il pluri omaggiato Blak and Blu. Gary ha un approccio molto moderno, con contaminazioni anche elettroniche e dub e la sua chitarra tradisce la passione per Ben Harper. Ma nel suo DNA c’è tanto blues storico,  con echi di John Lee Hooker e T-Bone Walker. Il suo essere poco propenso all’assolo lo rende il più classico dei bluesman moderni.

Talento più immenso di quello di Derek Trucks probabilmente non c’è in circolazione. A dire il vero il suo albero genealogico non mente, in quanto nipote di Butch Trucks, batterista degli Allman Brothers e quindi cresciuto nel torrido ambiente musicale della Florida.
Ma giustificare un talento così cristallino solo con il DNA sarebbe troppo ingiusto per un chitarrista che suona qualsiasi genere, blues e suoi derivati, con una scioltezza fuori dal comune. Con la sua Derek Trucks Band in otto dischi ha interpretato i generi più disparati, portando sui palchi di tutto il mondo un feeling con la sei corde che non ha pari. In particolare il suo uso dello slide combinato all’avversione per il plettro lo rendono particolare e con un suono molto caldo.
Eric Clapton, che lo portò con se in tour nel 2007, decretò a sue spese che il giovane allievo stava superando a larghe falcate il maestro.
Derek Trucks

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