Keith Richards. Life




Difficile commentare un libro come "Life", autobiografia di un istrione come Keith Richards.
Da una parte c'è la riconoscenza verso il padre musicale dei Rolling Stones. Per carità, Keith ogni due pagine ricorda che senza il suo Charlie (Watts) dietro le pelli della batteria, il suono degli Stones non sarebbe mai stato quello che noi conosciamo. Sorrido, ma so bene che in realtà è un solo per rimarcare chi non lo ha mai tradito (Charlie, appunto) nei confronti di colui il quale, negli ultimi 20 anni, si è distanziato in maniera progressiva: Mick Jagger.

Se però si leggesse Life come una storia interna della più grande rock band della storia non farei giustizia nei confronti dell'autobiografia più appassionante che io abbia letto, e la musica in questo caso non c'entra.
Chi è appassionato dell'ambiente musicale conosce, naturalmente per sentito dire, i problemi avuti con le droghe (ma anche per le droghe) di Keef. Nulla di questi particolari viene risparmiato, perchè in fondo fanno parte in maniera indissolubile di questo ragazzo, diventato uomo sui palchi e troppo preso di mira dallo star system per non aver utilizzato la sua addiction come uno schermo difensivo.

Non è una difesa di Richards, naturalmente. In certe pagine (e sono tante) ci si pone la domanda del come sia possibile averlo ancora qui con noi, di come abbia fatto a produrre dischi e suonare sui palchi mentre si dilaniava il sangue con mix di eroina, coca e di qualunque altra droga sintetica fosse in circolazione. Tanto più  si può difendere a spada tratta un padre come lui, che alla fine degli anni 70 porta con se in tour il figlioletto di appena sette anni, Marlon, dandogli il compito di svegliarlo per il concerto dopo una dose, di avvisarlo se nelle vicinanze fosse in arrivo la polizia, e di non fare entrare in stanza nessuno che potesse arrecare danno a Keef.
L'impressione che si ha è che Keith abbia però cavalcato le droghe sempre con una certa freddezza, ma anche paura. Attenzione al fornitore, attenzione alle dosi. Così intorno a lui le morti (celebri e non) quasi non si contano: Brian Jones e Gram Parson su tutti. Eppure lui resta lì, sul palco e dietro il banco del mixer con la sua chitarra, e quasi facciamo difficoltà a pensare, rivedendo quei filmati, che sia sotto effetto (pesante) di chissà quante droghe.

Nello sfogliare avido le pagine,  sono andato a cercare qualche filmato dell'epoca. All'apice della sua dipendenza, il live in Texas (1972) lo vede in splendida forma. Quando invece vi troverete a leggere cosa c'era dietro il palco, e prima e dopo, ne rimarrete a bocca aperta, come ho fatto io.

Ma sarebbe riduttivo pensare che tutta la storia di Keith si fermi alle droghe. Così infatti non è. C'è tantissima musica in queste 500 pagine, e soprattutto c'è una costante ricerca del suono "nero", del blues delle origini. Muddy Waters aleggia su ogni frase, dalle prime note messe insieme dagli Stones ma anche sull'esperienza, a mio modo di vedere stupenda, della fuga con gli X-Pensive Winos.

Per chi segue i Rolling Stones, il suo pensiero dei suoi sodali non è poi così spiazzante o nuovo. La fragilità di Ron Wood, l'amicizia fraterna con Charlie Watts, l'amore/odio con Mick Jagger, la poca attenzione prestata all'enigmatico Bill Wyman.
Ed allora non poteva intitolarla diversamente questa autobiografia. Life è il racconto della vita extra-ordinaria  di un bambino che alle scuole media prendeva botte dai ragazzi più alti, iscritto ai boy scout e con un nonno con una chitarra appesa in salotto. Semmai, di diverso da molti altri, c'è la storia degli anni seguenti. 

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