Mark Eitzel. Don't be a stranger

"Tu vedi questi musicisti che fanno il loro concerto e poi scendono dal palco e staccano la spina, non funziona affatto per me. E’ come se avessi il corpo pieno di coltelli e serpenti ogni momento"
Disco spiegato, almeno per quanto riguarda la crudezza di questa frase. In realtà Mark Eitzel pronunciò queste parole in una intervista di quattro anni fa, per descrivere l'album della sua band storica, gli American Music Club.
Ma il suo nuovo lavoro solista Don't be a stranger non è così lontano da una visione cupa del mondo.
Intendiamoci, rispetto a certi album che lo hanno preceduto, è un lavoro più arioso, con una speranza di sottofondo che sta soprattutto negli arrangiamenti, nelle chitarre acustiche da soft/jazz e nel cantanto, baritonale quanto si vuole ma sempre confidenziale. 

Eitzel, da anni, registra colonne sonore. No, non quelle dei film, ma dei paesaggi davanti la nostra finestra oppure che passano nel nostro specchietto retrovisore. Ed ha pochi colleghi alla sua altezza.

E' lui il vero songwriter, a tratti anche un crooner la cui voce non dimostra un cedimento nè un accenno di stonatura. E soprattutto, è la sua ugola a reggere le fondamenta di questo disco. Una decisione forte ma azzeccata, perchè bastano una chitarra ed un pianoforte da sottofondo, niente altro può scalfire la profondità di questo cinquantraenne cui la vita, nel 2011, ha riservato un attacco di cuore, dal quale è uscito con una voce ancora più accorata.

"Give me something I can use".

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