La meravigliosa storia di 4 musicisti alla ricerca della marmellata di Pearl

Chi l'ha detto che debbano essere raccontate solo le storie dei grandi nomi? Ho deciso di mettere nero su bianco il romanzo di quattro musicisti che per oltre quattro anni hanno condiviso una passione, una sala prove ed anche una idea. Perchè non c'è alcuna differenza tra l'addio dei R.E.M. e quello degli Yellow Ledbetter.

Ho conosciuto gli Yellows alla fine del 2007. Non sapevo chi fossero Michele, Gian Maria e Pietro. Ricevetti solo una telefonata timida da un bassista molto più grande di me che dall'altra parte della cornetta mi chiedeva se volevo strimpellare, ogni tanto, qualche canzone dei Pearl Jam. Perchè no? In fin dei conti dei PJ conoscevo vita, morte e miracoli. Forse erano anche la mia band preferita. Forse, perchè i gruppi preferiti cambiano di mese in mese, come una ruota che gira lenta ma inesorabile. A volte i Rolling Stones. Altre gli Stone Temple Pilots. Adesso mi sembra che siano Ryan Adams and the Cardinals. Poi ogni tanto la ruota gira ancora e mi ricordo che i Pearl Jam sono la mia band preferita. Sono così mutevole.

Insomma, mi ricordo che era un freddissimo pomeriggio di Dicembre, proprio nei giorni natalizi, quando per la prima volta incontrai gli Yellows. Che in realtà non erano ancora i Gialli, perchè il nome lo avremmo scelto qualche mese dopo, costretti dal primo evento pubblico. Penso che avesse nevicato da poco, perchè avevo sequestrato la jeep di famiglia per arrivare sino al Castello di Sassoferrato.
Appena ho aperto la porta della stanza mi è sembrato di stare a casa, come se in 29 anni li avessi sempre conosciuti Pietro, Michele e Gian Maria. Pietro così innamorato dei Pearl Jam, Michele così esplosivo sia dietro i tamburi che nel suo modo splendido di affrontare la vita, sfidandola come un pugile che entra nel ring. E Gian Maria così riflessivo, così calmo. Ricordo che suonammo Black, Porch ed Alive. L'enciclopedia dei Pearl Jam. Ricordo che cantai io, cosa che per fortuna durò solo lo spazio di un mese. Tutti avevamo un ruolo ben preciso. Io ero Mike McCready, il chitarrista solista. Gian Maria era il genio chitarristico di Stone Gossard. Pietro il metronomo musicale Jeff Ament. Michele poteva scegliere tra la pletora di batteristi che i Pearl Jam hanno collezionato in questi venti anni. Caro Michele, se leggerai mai queste righe, per me hai sempre somigliato tanto a Dave Krusen, quello che più che badare alla "pacca dura" guardava alla musicalità dei pezzi.

Una band musicale gioca su rapporti profondissimi e su intese che nascono in pochi secondi. Devi essere onesto con te stesso quando decidi di farne parte. O sei un ingranaggio del motore o sei fuori. Non ti è concesso di essere il meccanico, che entra in scena solo per qualche tagliando. Noi decidemmo, in quei primi due o tre incontri, che saremmo diventati un tributo ai Pearl Jam. Avevamo tutto per esserne dei degni replicanti. Io sognavo da anni di suonare le parti di chitarra di Mike. Gian era ed è chiaramente ancora oggi un chitarrista ritmico fondamentale. Senza di lui, saremmo andati alla deriva dopo le prime cinque canzoni. Per quattro anni ho avuto nelle orecchie il suo accompagnamento mentre mi arrovellavo nel suonare assoli a volume sempre più alto. Pietro in tutto questo periodo mi ha ricordato quei personaggi burberi dei fumetti, quelli che sembrano sempre sul punto di dirti "Ehi, adesso basta" ed invece scopri che hanno un animo gentile da cavaliere del Seicento. Pietro ed i suoi bassi così belli e vintage. Pietro che non sgarrava una nota, mi sembrava di suonare con Ament al mio fianco. E poi Michele, con il quale ho condiviso il mio lato guascone, quello del "suoniamo e decidiamo gli stop con un cenno". Il rock è questo, d'altronde.

In questa narrazione ho deciso di omettere il nome dei cantanti, perchè se ne sono alternati quattro e perchè non li conosco poi così bene da poter sapere se vogliono essere nominati liberamente in questa storia. Probabilmente è più un problema di copyright? O di privacy personale? Ci ho ragionato su, e penso che invece sia una questione di rispetto nei confronti di un quadrato magico (P.A.G.M.) che in fin dei conti di questa storia ha scritto la prefazione e la quarta di copertina.
D'altro canto, non voglio nemmeno descrivere i tre vocalist alla stregua di Richler ne La versione di Barney , pertanto non scriverò cantante n.1, cantante n.2 o 3. Ma li chiamerò con le iniziali. Gli interessati sanno che a loro va comunque il mio ringraziamento o comunque ricordo per questo periodo passato insieme.

La prima volta che provammo con un cantante serio, dall'altra parte del microfono c'era V. Fu per noi una emozione speciale sentire la completezza di Porch o la profondità di Black. Era la sensazione, corretta, che il progetta stava crescendo e che, velocemente o lentamente, stavamo percorrendo la strada giusta. Quando ci ritrovammo ancora in quattro per la giusta difficoltà di V. a garantirci un impegno costante, decidemmo di scommettere su un amico che seguiva le nostre prove, di tanto in tanto, dallo stipite della porta. Avevamo delle caretteristiche fondamentali per una band che voleva fare musica. Il tempo a disposizione e tanta voglia di suonare. Con B. abbiamo creato una scaletta eterogenea di grandi successi della band di Seattle. Tutti abbiamo messo a disposizione le nostre idee. La cosa più bella è che non ricordo esattamente chi ha scelto quale brano, perchè eravamo d'accordo su tutto. Pescavamo liberamente da sei/sette album che hanno rappresentato, volente o nolente, il ritorno ad un certo tipo di rock, chitarre in prima linea, melodia e ritmo.
Ripenso spesso a quanta pazienza serva per mettere su una scaletta per un concerto. I primi otto brani scivolano via come una biglia sul marmo ed appare tutto semplice. Poi si fa una difficoltà enorme. Un attacco non viene mai allo stesso modo, una linea vocale va aggiustata, un assolo non viene come vorrei. Ed i tempi si allungano al di la di ogni progetto, di ogni aspettativa. Quando si è arrivati a decidere il ventesimo pezzo si tira un sospiro di sollievo. Si è quasi vicini al primo obiettivo.

La settimana che precede la "prima" i brani non vengono mai. Potere dell'ansia da prestazione. Ho un po' di esperienza, e so che una prova perfetta che precede un concerto prelude ad una debacle. Il nostro prima della prima fu un insieme di preoccupazioni e paure, soprattutto perchè avevamo obiettivi diversi. Questo rende le band più affascinanti: le diverse modalità di approccio alla musica. Per alcuni di noi si doveva andare sul palco solo con la sicurezza di proporre uno spettacolo perfetto. Per altri, l'idea era di provare a capire a che punto erano i Gialli nella loro crescita. Va a capire dove sta la ragione. La ragione è talmente una modalità perfetta che non la vorrei avere mai. Semmai preferisco sapere di essermi sbagliato, se i miei presagi fossero a tinte fosche.
Andò così. Qualche tempo fa ho rivisto il video su youtube. Non voglio mettere l'indirizzo, da qualche parte nella rete bisogna cercarlo. Andò che due di noi non erano mai saliti su un palco a suonare, mentre tre, tra i quali il sottoscritto, sapevano cosa aspettarsi. L'ansia si dissolse dopo la prima canzone. Puoi suonare bene o suonare male, la percezione del primo concerto insieme ha sempre un alone di perfezione.

Un mese prima di salire su quel palco eravamo entrati in studio di registrazione. Era un momento per noi, l'idea di risentirci da un cd per capire se eravamo veramente una band. Michele aveva una drumsound fiammante nuova, ed ancora oggi mi riempie le orecchie quel suono perfetto dentro la registrazione. Noi tre come un corpo unico sputavamo note sotto il tetto di una mansarda, senza pubblico, senza guardarci negli occhi come invece di abitudine in sala prove. Avevo registrato altre volte, ma mi rendevo conto che in quel quadrato le cose fluivano velocemente. Non lo puoi spiegare. Non lo posso spiegare. Al termine di un sabato pomeriggio di marzo avevamo concluso il nostro lavoro strumentale. Concludemmo con una pizza a festeggiare il compleanno di uno di noi. Sapevo poche cose, ma tutte importanti a ben vedere. Avevo una band, e questa non era per me una novità. Avevo in questa band il ruolo che da tempo cercavo. Avevo dei nuovi amici, la cosa che mi sembrava più importante. Amici con vite, età ed estrazione diversa dalla mia. Sono certo che questo è stato il collante di oltre 48 mesi.
Mi accorgo solo ora che quel cd ce l'hanno tutti i miei parenti ed amici ma non io. Ho voluto promuovere una specie di affido. Tra 20 anni lo ascolterò godendomi chi ero e chi eravamo. Mi ricordo solo che nel collage interno c'è una mia foto da seduto con la chitarra e due enormi cuffie atte a riascoltarsi mentre registri. Ed una maglietta con scritto Sonic Youth. Gioventù Sonica.

Ne seguirono altri di concerti in una torrida estate che sembrava non concludersi mai. Anno 2009. Pochi giorni dopo Ferragosto suonammo in un caldo torrido in una piccola arena dentro il castello di Cerreto d'Esi. Il mese prima invece eravamo su un Teatro Romano, dentro Gubbio. Io saltavo da una parte all'altra del palco. Pietro da una foto mi guarda incuriosito. Ci sono 21 anni tra me e lui, eppure non sento nemmeno un'ombra di differenza.

Quando decidemmo di suonare nella serata del 26 Dicembre, eravamo già troppo pieni. Di prove. Di concerti. Forse anche di perfezione ricercata ma per fortuna mai rintracciata. Eppure è stato il concerto nel quale ho suonato meglio in tutta la mia vita. Perchè funzionava tutto. La Tele e la Strato giravano da sole. Potevo permettermi di sorridere dentro un assolo, perchè le mie mani andavano conoscendo la strada. Se non avessi avuto vicino a me Michele, Pietro e Gian sarei deragliato. Ma come puoi sbagliare, quando il batterista ti sorride, il bassista conosce a memoria il percorso, ed il chitarrista ritmico sta diventando l'amico che cerchi da una vita?
Delle serate rimangono ricordi. A metà concerto una bellissima bambina sale sul palco, si avvicina al papà che suona accanto a me ed urla "Papà, sei bravissimo". Può anche finire tutto li', la vita ha un senso enorme.

La prima sera che T. provò con noi c'era una neve copiosa fuori dalla sala prove. Avevamo un nuovo inizio da affrontare. Poche ore prima avevo affrontato un viaggio lungo sotto dei fiocchi bianchi per comprare il mio nuovo ampli. Era un regalo per i Gialli, oltre che per me.
T. ha portato nei Gialli la curiosità di sperimentare ed anche una grande duttilità. Entrava ed usciva dai pezzi con una facilità che mi portava a dire "Seguiamolo, ci porterà un po' lontano dai Pearl Jam ma più vicino a noi stessi". Nel primo concerto fatto insieme io indossavo una t-shirt della nazionale croata. Dovevo tanto agli Yellow Ledbetter in quel momento. Eravamo una famiglia che aveva già cambiato tre conviventi, ma avevamo idea di cosa volere. Light Years e Brain of J erano le nostre strade. Suonammo una Rearviewmirror troppo coesa per essere solo una canzone. Ringrazierò per sempre Michele di soffrire così tanto dietro i tamburi solo per farmi assaporare il sapore folle della musica.

La seconda volta che salimmo su un palco con T. fu senza il nostro batterista. Fu unplugged, ma non fu come  le altre volte. Si aprì un periodo nel quale dovevamo fare squadra. Da quel momento in poi fummo più uomini che musicisti. Più amici. Si moltiplicarono le cene, anche per non perderci di vista. Ci parcheggiammo, come si fa con le auto di cui siamo innamorati prima di portarle dal meccanico. Mai togliere l'assicurazione. Pagando sempre il bollo, anche senza percorrere un metro.
Così arrivarono due nuovi amici. S. alla voce e R. alla batteria, a sostituire per un periodo il nostro drummer. Li ho portati io nel gruppo, dai Pretty Noose agli Yellow Ledbetter. Hanno capito benissimo cosa e chi eravamo, ed hanno adeguato loro stessi all'idea che non si sostituisce mai nessuno, ma si porta sempre qualcosa di se stessi.

Me ne sono andato dai Gialli. Penso che nella musica le cose abbiano un inizio ed una fine. Nell'ultimo anno abbiamo cercato di dare ossigeno ad un qualcosa che si stava spegnendo.

Di questa storia fortissimamente vera porto dentro tante diapositive. Gian, Michele e Pietro sono i miei amici acquisiti. Non riuscirò mai a vederli con distacco, perchè li ho conosciuti quando ero un ragazzo e li ho lasciati che sono un uomo. Ho foto di Michele che suda in un Agosto asfissiante, Pietro con una birra fresca sopra l'amplificatore ed io e Gian Maria a parlare sino alle due di notte in una fredda serata di Ottobre.
Mi sono suonato addosso in questi anni. Ho rincorso tante volte la tastiera da vederla sterile. Ma non dimenticherò mai.

E' per questo che quando si sciolgono i REM o gli Yellow Ledbetter non fa differenza. Al mondo, comunque, manca qualcosa.

Grazie Gian Maria, Pietro e Michele.


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